Quello che manca
In un clima di generale disinteresse si sta consumando la campagna elettorale per le Politiche.
In Sicilia, se si esclude qualche “giullarata” di qualcuno, anche le elezioni regionali si stanno trascinando senza infiammare le folle. Eppure queste due campagne elettorali si stanno svolgendo nel bel mezzo di una tempesta perfetta di portata globale. Una tempesta di natura economica, sociale e politica, i cui contorni appaiono inediti e gli sviluppi futuri sostanzialmente imprevedibili: un mix esplosivo di carovita, inflazione alle stelle, rialzo dei prezzi delle materie prime, speculazioni finanziarie e rischi di bolle, emergenza energetica e guerra.
Chi vincerà?
Se c’è un risultato certo nelle prossime elezioni sarà, dunque, proprio l’aumento dell’astensionismo. Tutti se ne lamentano, assumendo questo fenomeno come un termometro della fragilità della democrazia italiana, eppure i soggetti in campo seguono le stesse liturgie di sempre, proprio quelle che il sentimento popolare non sopporta più.
Sono lontani i tempi in cui il voto era caratterizzato dall’appartenenza a un’ideologia e a una classe sociale. A quel tempo anche l’astensionismo aveva un carattere politico. Era più contenuto, ma in una certa misura trascinava con sé il pensiero che la società non la si cambia con la scheda nell’urna, ma con la lotta per strada. Oggi, al contrario, l’astensionismo è semplicemente la considerazione dell’inutilità del voto, senza che questo si traduca in un percorso politico diverso. Secondo una recente rilevazione 4 siciliani su 10 non sanno neanche che il 25 settembre oltre alle elezioni nazionali ci saranno quelle regionali.
Il marketing della rappresentanza
É anche difficile, ormai, individuare un nesso stretto tra il voto di una categoria e il suo riferimento politico. Sia sul piano nazionale che su quello locale l’elettorato ha la netta sensazione che la posta in palio sia solo la ridistribuzione dei posti di potere.
Più che la costruzione di progetti politici fondati su una classe o su piattaforme programmatiche si assiste alla parcellizzazione della rappresentanza. L’elettorato è trasformato in target da conquistare. Alla rappresentanza delle classi e degli interessi, alla rappresentazione ideologica, si è sostituita la cattura dei sentimenti che attraversano la società. Tutto è costruito intorno a leader che si giocano la partita attraverso metodi da marketing pubblicitario. Meloni, Calenda, Letta, Salvini sono solo voci, brand, che si contendono gli spazi del mercato elettorale. Sono leader di partiti che non esistono più.
E se l’offerta politica ha il carattere del prodotto commerciale ogni leader deve essere identificato con la proposta che lo caratterizza (la sicurezza, la flat tax, il reddito di cittadinanza, il rigassificatore di Piombino, l’inceneritore di Roma).
Tutto questo è possibile poiché non c’è rapporto tra ciò che accade in campagna elettorale e ciò che accadrà dopo. La campagna elettorale è un gioco che si svolge solo sui media classici e sui social. Le piazze diventano fotografie da fare rimbalzare tra una comparsata in TV e una sortita su TikTok. Ciò che accadrà dopo il giorno del voto è in larga misura indipendente dalla campagna elettorale. Per questo le paure agitate hanno pochi risvolti concreti. Il dopo è regolato da vincoli che non vengono messi a gara e che valgono qualunque sia il vincitore.
La rappresentanza si è estinta poiché non esistono più i soggetti collettivi sui quali, anche parassitariamente, anche rapacemente, essa si appoggiava. Rimangono brandelli di identità che vengono catturati da una molteplicità di proposte fondate su un singolo interesse corporativo. É per questo che accanto alle grandi coalizioni capaci di esercitare un marketing elettorale all’altezza dei tempi si affollano una quantità non indifferente di proposte specifiche che hanno pochissime possibilità di superare la soglia d’esistenza.
Ciò che colpisce non è ciò che c’è, ma quello che manca
Manca una proposta che colmi il distacco tra i territori e il luogo della decisione, tra le comunità e i loro rappresentanti, tra le singolarità e le istituzioni. Ciò che manca è il senso di giustizia, oscurato da una generica adesione alla legalità come sistema formale di sottomissione alle ingiustizie perpetrate dallo Stato. Ciò che manca è una proposta che superi la rappresentanza, che faccia venire alla luce ciò che crea ricchezza: le comunità che abitano i territori e le singolarità che attraversano le metropoli. Perché comunità e singolarità sono state espulse dalla politica o se ne sono andate.
Ci vuole, allora, un processo istituzionale capace di accoglierle, di ricomporle, dar loro voce, dar loro strumenti decisionali. Ciò che può apparire come un’astrazione è invece semplicemente ciò che abbiamo intorno e che rimane escluso dalla disputa elettorale. Sono i lavoratori che ogni giorno inventano il loro futuro e non hanno più rappresentanza. Sono le comunità che resistono ai processi di devastazione del pianeta, di estinzione delle condizioni stesse della nostra vita. Sono i ricercatori che vedono il prodotto dei propri lavori espropriato per fini speculativi. Sono gli artisti che soggiacciono a dinamiche di mercato irrispettose della loro creatività. Sono i comportamenti che vengono estratti e trasformati in valore dalle piattaforme sulle quali passiamo larga parte delle nostre giornate.
Ci riferiamo a un processo che istituisca l’autogoverno dei territori, che destrutturi l’attuale assetto della distribuzione del potere – sempre più centralizzato – per costruirne al contempo uno nuovo basato sui Comuni e sulla possibilità per gli abitanti di decidere le politiche economiche e il modello di produzione e consumo. Un processo che muova dal principio dell’autodeterminazione, per liberarci dalle contraddizioni esplosive cui le formazioni sociali capitalistiche hanno condotto il pianeta e con esso le nostre stesse vite.
Occorre che la riflessione politica si renda conto che ha ormai raggiunto maturazione e consistenza storica la possibilità di pensare a società senza Stato, territori indipendenti capaci di porsi fuori dalle dinamiche politiche della competizione inter-statale, dalle dinamiche della produzione e del consumo segnati dal capitalismo. L’unica soluzione è fare indipendenza ovunque, riprendersi il diritto di decidere, costruire le istituzioni di democrazia diretta che diano vita a nuove forme di civiltà contro la barbarie dell’esistente.