La questione dei territori meridionali ai tempi del Coronavirus.
L’epidemia e il divario istituzionale fra centro e periferia.
L’epidemia è “precipitata” sulla questione istituzionale, sulla forma dello Stato, tanto quanto ha impattato e impatterà l’economia. Non si tratta solo di vedere se, come e quanto “lo stato di eccezione” che l’epidemia ha imposto durerà e modificherà la democrazia rappresentativa – nei fatti, la politica dei partiti sembra al momento “in quarantena”, mentre le decisioni sono sostanzialmente assunte dal Governo che decreta “in nome della nazione”. Si tratta invece di capire, nello specifico, come l’epidemia abbia modificato i termini della crisi istituzionale provocata dalla richiesta di “autonomia differenziata” di alcune regioni. Ci riferiamo al tentativo di trasformazione costituzionale portato avanti – secondo le proprie necessità – dai gruppi di potere egemoni in Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna, un vero e proprio decentramento di poteri, una regionalizzazione dello Stato.
Cosa è accaduto nell’epidemia? È accaduto che il forte conflitto venutosi a creare tra centro e periferia istituzionale abbia ribaltato i termini della questione. In breve è accaduto – al nord come al sud – che sindaci e governatori delle regioni, che chiedevano o provavano a lavorare secondo i propri “margini di operatività”, si sono trovati scavalcati e in molti casi contraddetti dalla decretazione del centro. E non c’è “concorrenza” tra delibera comunale o regionale e decreto del Governo: questo fa aggio su tutto. Per fare un esempio il Ministro dell’interno ha denunciato per vilipendio alla Repubblica il sindaco di Messina – che, giusto o sbagliato, cercava di intervenire su una criticità – ricordandogli che a comandare è il ministro e non il sindaco.
Si potrebbe aggiungere che questa non è una “anomalia italiana”, perché è accaduto in Germania tra governo e Lander ed è accaduto, soprattutto, negli Stati uniti, dove più forte è la contraddizione tra governo e Stati federali. Da noi, perciò, “l’unità nazionale” – nella forma di concentrazione dei poteri nelle mani dell’esecutivo – ne sta uscendo rafforzata – peraltro, con gran sfoggio di retorica per racimolare consenso popolare. È con questo possibile scenario che i processi di “indipendenza” dovranno confrontarsi: un nuovo intervento massiccio e massivo dello Stato. Magari, non più lo “Stato della pandemia” ma lo Stato della “Ricostruzione”.
La “ricostruzione” economica globale rafforzerà le gerarchie territoriali.
La “ricostruzione” dovrà avvenire anche a livello economico. E non solo in Italia chiaramente, ma a livello globale. E a livello globale – va specificato per poter prevedere come si evolveranno le cose – il Capitale procede per agglomerati di aree che producono e si sviluppano e aree depresse.
La globalizzazione finanziaria ha portato in primo piano la problematica dei territori, qui intesi
nel senso di spazi gerarchizzati che riproducono geograficamente il rapporto tra dominatori e dominati. La rete globale, indirizzando i flussi economici, divide il mondo in territori che possono diventare nodi della rete perché riescono a produrre valore aggiunto, e territori che non riescono – o magari non vogliono – diventare nodi della rete. Questi ultimi, abbandonati a se stessi, contribuiscono al funzionamento della macchina capitalistica con il loro sottosviluppo, fungendo da serbatoio da cui estrarre risorse, costringendo chi ci vive alla desertificazione, alla disoccupazione, alla precarietà e all’emigrazione.
Nelle gerarchie territoriali gli investimenti vanno dove esistono migliori condizioni per il profitto. Si tratta di circostanze sviluppate all’interno dei territori come “tranquillità sociale” (ossia assenza di conflittualità, disponibilità sindacale, efficacia delle forze e dei mezzi di polizia ed una extralegalità controllata), disponibilità di “forza lavoro istruita”, servizi, adeguate infrastrutture (buona rete viaria, prossimità alle aeree portuali ed aeroportuali). Le aree depresse, come la Sicilia, sono destinate invece a quote minime di finanziamento. Le scuole, gli ospedali, l’assistenza, le case popolari, la campagna, la viabilità, la qualità di vita, restano fuori, abbandonati all’incuria e alla decadenza. Questo – in breve – è quanto accade in circostanze ordinarie.
La ripresa globale ripartirà dagli hub che già costituivano lo scheletro della filiera produttiva e distributiva. La ricostruzione, se avverrà e quando avverrà, ripartirà dalle zone “indebolite” che appartengono già alle filiere industriali globali. Non riguarderà le zone dismesse già prima dell’arrivo del Covid-19. Servirà a rafforzare le gerarchie sociali e territoriali già esistenti.
D’altronde le aree cosiddette virtuose sono quelle maggiormente colpite dall’epidemia – in Italia: Lombardia, Piemonte, Veneto. Lì è stato come messo in standby lo sviluppo economico. Nelle aree depresse – in Italia: la Sicilia e il Sud – non c’era alcuno sviluppo rilevante da mettere in sospensione. Nessuno ancora ha detto come, ma di certo tutti i provvedimenti riguarderanno i salari e le remunerazioni – perciò dove ci sono più salari e remunerazioni, lì andranno maggiormente i soldi. Gli investimenti statali arriveranno, ma saranno mirati a “riprendere” quanto si è “sospeso”, non quanto “non c’era”.
Fuga dal Nord – lo “straordinario” contro-esodo.
L’Italia è tagliata in due dall’epidemia: Nord e Sud. Sappiamo che lo era anche prima e che lo sarà – forse pure con più forza – anche dopo. Il Coronavirus aiuta – qualora ce fosse ancora bisogno – ad accorgersene. Improvvisamente ci si è accorti che esiste ancora una questione dei territori meridionali e, soprattutto, che esiste di nuovo una questione “emigrazione” nel Mezzogiorno. Migliaia di giovani, studenti iscritti nelle università del Nord, precari, lavoratori licenziati perché i loro posti di lavoro sono stati chiusi, intere famiglie ammassati in treni in partenza da Milano, Torino, Bologna. Sono tantissimi. E chi se ne era mai accorto? Tutti in rotta verso casa. Tornano verso le loro famiglie, verso gli affetti, gli amici, il paese, il quartiere. Disgraziati e irresponsabili. I commenti più delicati. Untori, qualcuno li ha definiti.
Gente in preda alla paura. Diciamo noi. Paura non tanto di contrarre il virus – è più probabile prenderlo all’interno di stazioni, treni o autobus, che chiusi in casa in una zona rossa – quanto di restare soli in una città che non è la propria, in una stanza fredda che non ha l’odore di casa. Colpevoli? Forse si; irrazionali di certo. Ma di prendercela con chi fugge impaurito non ce la sentiamo. Là sopra non sanno che fare, non hanno nessuno. Preferiscono rischiare tutto pur di tornare al Sud, a casa loro, da chi può dargli aiuto e conforto a prescindere.
Al Nord non vedevano l’ora che partissero. Gente in meno che grava sul loro sistema sanitario; sulle loro statistiche di morti e contagiati. Li spingono su quei treni.
Al Sud li respingono. Musumeci – Presidente della Sicilia – chiede la quarantena agli imbarcaderi dei traghetti a Messina; De Luca – sindaco di Messina – vuole l’obbligo di isolamento; Emiliano – Presidente della Puglia – chiede l’applicazione dell’articolo 650 del Codice penale ovvero, per la “inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità”, l’arresto fino a tre mesi. Come non fossero figli delle loro stesse terre.
Vi è piaciuto trasferirvi al Nord per studiare o lavorare? Bene. Ora restateci. Come se l’emigrazione per i più non fosse una scelta spiacevole o, quantomeno, costretta da tantissimi fattori economici e sociali. E infatti, la fuga di ritorno all’impazzata lo dimostra. Il sentimento irrazionale, quello più intimo, viscerale spinge a tornare al Sud, quel Sud dannato che costringe a partire quando razionalmente si pensa agli studi, al lavoro, al futuro, e che poi richiama quando ci sentiamo impauriti, soli in una terra che non è la nostra. Non è la nostra perché non ci siamo nati e cresciuti e perché è così profondamente diversa che non riuscirà mai a creare un senso di appartenenza.
I treni pieni, non servono però a riflettere sulla condizione dell’emigrante, sull’Italia spaccata in due. Servono per rinnovare retoriche neo-coloniali sul Sud e sui meridionali. D’altronde già nei primi giorni di diffusione avevamo assistito a scenette di politici e commentatori che osservavano come il virus avesse colpito così duramente la “parte produttiva del Paese”, implicitamente dicendo che fosse toccata al Sud, tutto sommato non sarebbe stato poi sto gran male. Perché stupirsi, dunque, che i meridionali non vedano l’ora di andarsene via da lì? Il Sindaco di Napoli, De Magistris, aveva affermato che se il contagio fosse partito dalla Campania e non dalla Lombardia, il primo decreto sarebbe stato quello di sparare a vista qualsiasi meridionale. Il motivo per “sparare” ai meridionali si è trovato comunque.
La sperimentazione della solitudine al Nord e del richiamo verso casa modificherà le soggettività giovanili? No, resteranno capitalistiche. Modificherà i comportamenti. Un misto fra precauzione e diffidenza porterà, soprattutto nel primo periodo, a preferire la sicurezza di casa. Intendiamo a livello globale. Avrà un impatto anche sulla migrazione interna all’Italia. Ma l’emigrazione dal Sud è un risorsa per il Nord, non sarebbe stata indotta e mantenuta nei decenni se così non fosse. Una risorsa che in un modo o nell’altro lo Stato dovrà ripristinare.
Il periodo intermedio – quello dalla fine delle restrizioni alla rimessa a valore dell’emigrazione – ci da una possibilità di intervento. Da una opportunità a chi in Sicilia ha deciso di restare, facendo della propria scelta una rivendicazione collettiva. Intorno alla campagna Si resti arrinesci si riconoscono tantissimi giovani e meno giovani che hanno capito chi è il nemico e vogliono lottare per eliminarlo. La soluzione alla questione dei territori meridionali e all’emigrazione forzata non è la paura della partenza indotta da un virus, ma è la lotta per la liberazione della propria terra dallo Stato italiano e dal Capitale che nei territori del Sud e nella nostra Isola creano le condizioni favorevoli alla fuga – in tempi ordinari verso il Nord, in tempi straordinari verso casa.