Raniero Panzieri in Sicilia: le fondamenta dell’operaismo
lanfranco caminiti
Nel dicembre del 1948 Panzieri è a Messina. Lo ha chiamato Galvano Della Volpe, che qui insegna e lo stima – entrambi provano a strizzare Marx fuori dagli schemi dell’hegelismo e dell’ossificazione ideologica –, gli vuole bene e ne conosce le ristrettezze economiche, offrendogli un incarico all’università, facoltà di Lettere: Filosofia del diritto (ne è rimasta la dispensa del corso 1949-50, Il problema dello Stato moderno – La crisi del giusnaturalismo, assemblata e revisionata tra appunti rimasti, pagine tra le carte di Norberto Bobbio e note di Nicolao Merker, che fu allievo di Panzieri e poi a sua volta professore a Messina).
Pucci Saija, la moglie di Raniero di origini siciliane, che lo ha conosciuto a Roma dove lei svolgeva un piccolo incarico presso il Partito socialista e lui lavorava a una qualche rivista e si sono sposati, è incinta e non può seguirlo; arriverà nella primavera del 1949 (c’è una delicata e struggente intervista – La mia vita è stata bella – che racconta dell’entusiasmo e dei sacrifici di quegli anni, qui).
Tra il 1949 e il 1951 Panzieri insegna all’università e partecipa delle attività della Federazione socialista messinese. Nel 1950 è stata varata la Riforma agraria, e anche la Cassa per il Mezzogiorno. Dopo il ciclo di occupazione delle terre legate ai decreti Gullo, ministro dell’Agricoltura di un governo ancora provvisorio e nel bel mezzo della guerra civile in corso, nel 1944, varati sotto il titolo “Concessioni ai contadini delle terre incolte”, la Riforma agraria sarà occasione per un nuovo ciclo di occupazioni. Nel mezzo c’è stata la repressione brutale della polizia – che ha spesso sparato sui contadini – e l’assassinio per mano di mafia di decine di sindacalisti impegnati nelle lotte per la terra. Continueranno, e l’una e l’altro.
Nei Nebrodi del Messinese, contadini e braccianti si organizzano. Alla loro testa c’è questo giovane professore – l’aura di “leggenda” che presto lo avvolgerà racconta: alle quattro è sulle terre, alle dieci fa lezione all’università –, in prima fila anche quando si tratta di sfidare la polizia. Subirà arresti e processi.
Nel 1951, il partito manda Panzieri a Palermo a dirigere la Federazione regionale – nel frattempo lo ha eletto al Comitato centrale e nella Direzione. Non gli verrà rinnovato l’incarico all’università, ma, per fortuna, lo avrà la moglie Pucci: Letteratura tedesca, che farà quindi avantindrè tra Palermo e Messina. Pucci si è laureata a Torino con una tesi su Holderlin, ha poi vinto una borsa di studio all’Istituto di studi germanici di Roma, ha passato mesi a Tubinga, ha già tradotto un libro di Martin Lutero – conosce, insomma, il tedesco, che invece Raniero non sa: quando si sobbarcheranno il compito di tradurre il secondo Libro del Capitale di Marx, Pucci tradurrà e Raniero rivedrà la traduzione, anche se sulla copertina uscirà solo il nome di Panzieri, contrariandolo – e così per altre cose.
Quello straordinario ciclo di lotte modificherà per sempre e la composizione di classe della terra – con la scomparsa di figure intermedie del lavoro – e il blocco di potere: il latifondo, cuore nero del blocco agrario, si ridurrà sempre più progressivamente (la legge porrà prima il vincolo di estensione massima a 200 ha, e poi a 100), e i poteri si sposteranno verso le forme nuove del capitalismo, i monopoli, le industrializzazioni, gli appalti della spesa pubblica, la cementificazione urbanistica.
Ma nonostante la dura conquista di piccoli appezzamenti di terra – quelli più incolti, abbandonati e improduttivi – e la trasformazione in piccoli proprietari, molti braccianti e contadini preferiranno emigrare: solo dalla Sicilia, nel ventennio che va da 1951 al ‘71, su una popolazione complessiva di 4,5 milioni, più di un milione di persone abbandona l’isola. Una parte grande veniva dalle zone rurali. Si era concluso il lungo ciclo che era stato scandito dal grido: terra e libertà.
A Palermo, Panzieri resterà fino al 1953, girando la Sicilia in lungo e in largo – non è mai stato uomo da risparmiarsi. Nel contempo, avrà un altro incarico a Roma, nell’ufficio Stampa e propaganda – e quindi viaggerà su e giù per l’Italia. Panzieri va a Roma, lascia definitivamente la Sicilia, e anche Pucci va con lui – l’incarico all’università di Messina non le è stato rinnovato. Il resto della sua storia – gli incarichi e le rotture dentro il partito – qui poco importano. Nel 1959 è a Torino, a lavorare come redattore prima e consulente poi per Einaudi.
Incontrerà di nuovo la Sicilia, i siciliani, quando darà vita ai «Quaderni rossi», nel 1961. Perché gli operai emigrati che coinvolgerà nella sua conricerca – quelli anche dell’inchiesta di Goffredo Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, che cercherà di far pubblicare da Einaudi, e che verrà respinta in una gran tempesta spaccando a metà il comitato di redazione, provocando anche il suo licenziamento nel 1963, e pubblicata poi da Feltrinelli pochi giorni prima della sua morte nel 1964 –, quelli del lungo sciopero e della rivolta di piazza Statuto del 1962, l’atto di fondazione di un nuovo soggetto sociale e di un ciclo di lotte senza eguali che arriverà fino alla fine degli anni Settanta e segnerà la rottura dentro la storia del movimento operaio italiano, sono loro: i braccianti, i metatieri, i terraggeri, i mezzadri, i coloni delle lotte per la terra. Panzieri li conosce già.
I contadini, soggetto politico.
Degli appunti, delle carte di Panzieri di quel periodo in Sicilia non sono rimaste molte cose. Sono comunque sufficienti per focalizzare il suo pensiero su due aspetti determinanti e intrecciati: il ruolo del movimento contadino e la questione dell’Autonomia siciliana.
Annota Panzieri: «Quale è il carattere essenziale del movimento. È o no un movimento politico? E in che senso è un movimento politico? L’universalità del movimento. Autonomia politica e organizzativa. Autonomia di base. Legare il movimento a situazioni particolari (luoghi di lavoro, categorie professionali etc.) Le diffidenze sono di vario genere. Verso la presenza di partiti nel movimento. L’autonomia politica e organizzativa è la migliore risposta. Se il nostro “punto di Archimede” è oggi il movimento contadino, il “tempo di ingranamento” è necessariamente lungo».
E ancora: «Molti compagni, confondendo due nozioni distinte, ritengono il movimento contadino, in modo particolare quello dell’occupazione delle terre, un movimento “spontaneo”. Cioè puramente economico. Io penso che si debba tenere ben fermo questo punto. Il movimento contadino è, politicamente, quello che è, cioè, un tentativo di rivoluzione democratica. Ma su questo piano non è affatto un movimento spontaneo ed economico. Esso avviva forme e obiettivi politici e ideologici non meno che economici, ad esempio l’amministrazione dei comuni, una diversa giustizia amministrativa e fiscale, l’elevamento culturale, etc. I nostri compagni commettono spesso gravi errori, perché molte volte non riconoscono la figura rivoluzionaria e politica del movimento. Essi utopisticamente vi cercano talora ciò che non può esserci, un contenuto schiettamente proletario, non trovando questo, lo ritengono un movimento puramente spontaneo. E così facendo (non solo pensando) lo avviliscono. […] Noi dobbiamo, insomma, uscire dall’indistinto nel valutare il movimento contadino. Dobbiamo ravvisare, caso per caso, la base economica e sociale, gli obiettivi, le forze. Dobbiamo, caso per caso, enuclearne il contenuto proletario e democratico, per sviluppare tutta la capacità politica di cui il movimento è capace» [Appunti inediti del 1950, in: Raniero Panzieri, L’alternativa socialista: scritti scelti 1944-1956, Torino Einaudi, 1982].
E ancora: «Il valore preminente che assume nella lotta attuale dei contadini l’elemento generale, politico, di azione unitaria per la riforma agraria, pone in primo piano l’esigenza di realizzare anche sul terreno organizzativo, nel corso della lotta stessa, le più valide e solide alleanze con gli altri strati di lavoratori e con tutti i ceti produttivi della Sicilia» [da «Sicilia socialista», ottobre 1952, ibidem].
Grava “a sinistra” nell’analisi delle cose del momento, la lettura gramsciana della questione meridionale, dell’alleanza operai-contadini, del ruolo egemonico della classe di fabbrica, della funzione del proletariato urbano nel sud, del nord e del sud. I contadini hanno un ruolo e un destino di “alleati”, sono soggetto su cui esercitare egemonia per sottrarli al blocco agrario, sono la “campagna”, ovvero la periferia, di quel luogo strategico che è “la città”, ovvero il nord, ma non esprimono – non possono, per l’individualismo insito nelle loro forme di produzione – soggettività politica rivoluzionaria: le loro lotte sono “spontanee”, ovvero economiche. È il partito che può, attorno a sé, esercitare organizzazione, e quindi indirizzare scopi e obiettivi. Ma grava anche, e forse soprattutto, indipendentemente dalla questione meridionale, una lettura rigida del rapporto tra partito e classi.
Panzieri sembra rovesciare tutto questo: il confine tra lotta “economica” e lotta “politica” è adesso sottile, anzi si capovolge. È nella lotta per la terra – per la propria terra – che il movimento esprime soggettività politica. Una soggettività universale, che si pone cioè non solo nei riguardi dei propri interessi, ma si immagina l’organizzazione sociale e amministrativa di tutti gli strati sociali. Una soggettività autonoma, che guarda con diffidenza la presenza dei partiti politici, e si organizza da sé, sviluppando istituti del potere dal basso.
Senza voler forzare eccessivamente e in realtà offrendo niente più che una suggestione, mi pare che si possa qui ritrovare un nocciolo del pensiero e dell’attività successivi di Panzieri.
A esempio, sul rapporto tra lotta economica e politica: «Il secondo significato, più generale, è quest’altro: cioè che in realtà, in quella lotta sindacale, gli operai avevano espresso un contenuto che non può essere soddisfatto da nessuna conclusione sindacale, perché ogni azione sindacale, per quanto sia avanzata, ha sempre un aspetto, appunto quello contrattuale, che è inevitabilmente sempre un aspetto di stabilizzazione del sistema: il quale è precisamente ciò che gli operai avevano invece messo in discussione nella lotta [in: Raniero Panzieri, Spontaneità e organizzazione: gli anni dei “Quaderni rossi”, Pisa, Bfs, 1994]»
E ancora a esempio, sulla politicità dei movimenti di lotta e il senso della loro soggettività: «Noi ci accorgiamo e pensiamo di poter affermare che proprio il carattere avanzato delle lotte operaie rivela, diciamo pure, i tratti avanzati del capitalismo» [ibidem]. Affermazione questa, che è un po’ il “punto di Archimede” dell’operaismo.
Il carattere avanzato delle lotte contadine in Sicilia, quel che residuava dall’aspetto sindacale, indicava i tratti nuovi del capitalismo – il blocco agrario, il latifondo, che aveva costituito peraltro uno dei perni del fascismo, era ormai il passato: il movimento contadino di occupazione delle terre era un soggetto politico nuovo, e non solo il filo rosso che lo legava alla storia di ribellioni e rivolte, che poneva una questione di potere, terra e libertà. La sua sconfitta lo porterà all’emigrazione. La sua sconfitta lo porterà a innervare il nuovo ciclo di lotte operaie al nord.
Autonomia e petrolio.
I socialisti sono stati lenti e restii nell’abbracciare l’autonomismo siciliano. Dirà Nenni alla Commissione parlamentare dell’Assemblea siciliana alla vigilia del voto della Costituente sul coordinamento dello Statuto con la Costituzione: «Personalmente, mi son trovato di fronte al problema siciliano in una situazione particolare […] Ho avuto qualche esitazione, non di fronte al problema del regionalismo siciliano, ma sul regionalismo in generale. La visione che io ho dei problemi italiani è una visione unitaria nel senso che lo Stato deve risolvere il problema del regionalismo quando ha risolto il suo problema. Questo spiega perché, quando si discusse il problema dello Statuto siciliano, io fui tra i pochi a fare delle esplicite riserve» [pubblicato in «L’Ora», 22 gennaio 1948].
Panzieri dirà cose simili sul rapporto tra autonomia regionale e unità nazionale: «La conquista dell’autonomia significò precisamente la volontà del popolo siciliano di inserire la sua lotta nella lotta generale del popolo italiano, di riunire il problema del suo sviluppo democratico al problema della rinascita democratica in tutta Italia. Conquistando, con l’autonomia, le possibilità concrete della sua liberazione economica e sociale, il popolo siciliano ha affrontato in modo risoluto, concreto, esemplare, il problema della formazione dell’unità della nostra patria, trasferendo perciò, per quanto riguarda la Sicilia, la questione meridionale dal piano evasivo della cultura astratta al piano della cultura vivente ed operante, di un’azione politica, di una prospettiva di lavoro, di mobilitazione, di lotta di tutto il popolo italiano» [Viva la Sicilia!, «Avanti!», 6 giugno 1951].
E ancora: «Si realizza così il superamento, nell’odierno meridionalismo, dell’opposizione tra unitari e autonomisti, anche se è doveroso riconoscere, da Colajanni a Salvemini a Dorso, nelle correnti autonomistiche il fermento più vivo, il preannuncio e insieme lo strumento iniziale di realizzazione della concezione più matura. L’esigenza unitaria (Giustino Fortunato) perde il suo carattere “feticistico”, conservatore, nel momento in cui diviene esigenza consapevole di unificazione reale presso le forze popolari. L’autonomismo perde il suo carattere astrattamente giuridico, il suo residuo utopismo – al quale vittoriosamente gli unitari potevano contrapporre la miserabile realtà della vita politica meridionale in balia del trasformismo o delle clientele locali – nel momento in cui esso diviene espressione della conquistata fiducia delle masse meridionali in se stesse» [Cultura e contadini nel Sud, «Avanti!», 20 febbraio 1955].
Panzieri è di formazione socialista “morandiana”, e a Rodolfo Morandi resterà sempre legato. Il filo rosso del pensiero di Morandi sta nella costituzione di istituti del “controllo operaio” – è questo che lo differenzia dalla lettura comunista dello Stato e dalla lettura socialdemocratica: una macchina amministrativa regolatore del capitale, da conquistare nell’un caso; una macchina amministrativa da riformare progressivamente nell’altro. Sua comunque è una delle più belle espressioni sulla questione dell’autonomia siciliana; la disse durante un convegno a Catania del giugno 1954: «Ai compagni siciliani voglio dire che loro primo compito, nell’attuare la linea politica del Partito, è di recare questa fondamentale questione fra le masse, di spezzare il pane dell’autonomia fra il popolo».
Gli istituti del “controllo operaio” saranno per Panzieri la Costituente della terra e l’autogoverno comunale. Scriverà: «La pressione sempre crescente delle Amministrazioni comunali guidate dalla Lega dei Comuni siciliani, la tempestiva azione dei socialisti e dei comunisti, i quali presentavano un organico progetto di riforma all’esame dell’Assemblea regionale, hanno determinato l’approvazione della legge di riforma amministrativa, che si ispira alla soppressione delle circoscrizioni provinciali; alla creazione di un ordinamento basato sui Comuni autonomi amministrativamente e finanziariamente e sui liberi Consorzi comunali con la denominazione di “province regionali”, a un sistema di controlli limitato alla legittimità degli atti affidato ad organi collegiali» [Nell’alternativa socialista rinascita e autonomia per la Sicilia, «Propaganda socialista», n. 17-18, 1955, in Domenico Rizzo, Il Partito socialista e Raniero Panzieri in Sicilia (1950-1955), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001]. L’idea, l’obiettivo è quello della soppressione delle sovrastrutture prefettizie – articolazione dello Stato centralista e, spesso, del suo volto repressivo. Resterà un’ipotesi.
Ma una nuova fase viene aperta in Sicilia dalla scoperta del petrolio. Panzieri coglie e interviene a modo suo sul mutamento dello scenario economico e politico che tale scoperta comporta. Scriverà: «La destinazione naturale e conseguente di tali risorse è quella di un loro sfruttamento per un sano processo di industrializzazione; per assicurare con la creazione di un Ente pubblico, sotto il controllo della Assemblea regionale e aperto agli apporti degli enti pubblici nazionali, la possibilità alle imprese industriali non monopolistiche di accedere direttamente alle fonti della energia naturale […] Ne consegue che positiva si rivela la Autonomia siciliana e valida al fine della libertà e dello sviluppo democratico se essa è utilizzata per conservare alla Sicilia e all’Italia tutta la ricchezza inestimabile del petrolio contro l’invadenza economica e quindi politica dell’imperialismo americano. Su questo terreno si gioca oggi la libertà e l’indipendenza della Nazione tutta oltreché il progresso economico e sociale della Sicilia. Né è a dire che, nel caso, bisogna ridurre il problema alla maggiore o minore “royalty” che in atto in Sicilia è del 12,50 per cento sul prodotto grezzo, in quanto l’incremento della entrata che non sia legato ad un radicale mutamento delle strutture economiche non determinerebbe alcun reale benessere per la Sicilia, non creando una qualsiasi base di sviluppo economico. La “royalty” non può essere posta a fondamento della industrializzazione dell’isola» [ibidem].
Ribadirà il concetto in un’intervista a «L’Ora» di Palermo il 12 maggio 1955: «La spinta involutiva del blocco reazionario si è ulteriormente aggravata in modo drammatico, collegandosi ad essa l’azione del cartello internazionale deciso a mettere le mani sui ricchissimi giacimenti petroliferi. Su queste questioni gravissime – l’autonomia e il petrolio – si decide in queste elezioni […] In Sicilia si combatte oggi una battaglia importante per la democrazia. La revisione o la deformazione dell’autonomia, la presenza predatrice del cartello internazionale minacciosa per la nostra indipendenza, costituirebbero un colpo assai serio inferto a tutto il paese» [Raniero Panzieri, 1982].
Autonomia e petrolio. Eccolo il nodo. Non c’è indipendenza politica se non c’è anche indipendenza economica; non basta la sufficienza economica se non si innesca un processo di autogoverno e di controllo sociale.
È davvero un peccato – non me ne vorranno gli adepti dei «Quaderni rossi», gli operaisti primevi e tardivi – che Panzieri non sia rimasto in Sicilia.
foto: occupazione di terre, campagne di Gela, collezione privata famiglia La Rosa.