Ribaltare la violenza strutturale, costruire autodeterminazione
Quando diciamo “indipendenza” intendiamo costruzione di un modello di sviluppo che rimetta al centro le comunità territoriali e le loro esigenze, riportando le decisioni che ricadono sui territori nelle mani di chi li abita. Quando diciamo “liberazione” intendiamo riscatto da tutte le forme di dominio. Indipendenza e liberazione dei territori dunque, ma anche indipendenza e liberazione conquistate riprendendo le redini della propria vita, acquisendo consapevolezza e autodeterminandosi, mettendo in discussione ruoli imposti, riferimenti culturali egemonici, narrazioni vittimizzanti.
Una violenza strutturale su corpi e territori
Dopo due anni di pandemia, nel pieno della cosiddetta emergenza climatica e di altri conflitti, è importante ribadire che intendiamo difendere noi stesse – come difendiamo i luoghi che abitiamo – perché riconosciamo che la violenza che si esercita su corpi e territori è tutto il contrario che emergenziale e occasionale. Al contrario, la violenza che vediamo dispiegarsi è strutturale perché strutturale è il sistema di dominio che la legittima e la riproduce.
Strutturali sono i modelli di accaparramento dei territori ai fini di profitto e il loro impoverimento programmato, strutturale è lo sfruttamento dell’ecosistema che ha influito sulla pandemia in cui oggi ci troviamo. Ci ritroviamo a vivere in un apparente stato di normalità che prevede che ci siano persone e luoghi a disposizione. Anche per questo motivo la violenza esercitata sui territori e quella di genere diventano entrambe tasselli di un modello coloniale, estrattivo a patriarcale tutto da ribaltare a partire dalle lotte reali che viviamo nelle nostre comunità.
Costruire autodeterminazione
Per invertire la rotta è necessario costruire autodeterminazione soggettiva e collettiva e farne tessuto dell’indipendenza, come già praticato dalle donne di tutto il mondo che ovunque si oppongono allo sfruttamento del proprio territorio. Contro le narrazioni di rassegnazione che lo Stato prova a cucire sulle donne e sulle loro resistenze, in tutto il mondo esse hanno dimostrato di poter costituire un fronte compatto di resistenza contro i meccanismi di sfruttamento. In Sicilia abbiamo visto sorgere comitati di mamme e studentesse, abbiamo manifestato con le donne dei comitati territoriali o dei comitati in difesa delle strutture sanitarie. Le abbiamo viste lottare senza risparmiarsi per il diritto alla casa e per quello al reddito. Erano in prima fila quando di trattava di scrollarsi quel senso di impotenza e sempre in prima fila quando si trattava di indicare una nuova rotta, di rompere con i vecchi modelli e trovare nuove forme di partecipazione.
Una nuova rotta
D’altra parte, il più antico gruppo colonizzato della storia dell’umanità non può che essere centrale nelle analisi e nelle pratiche che vogliono scardinare ogni forma di dominio coloniale sui territori. Intolleranti ai ruoli e alle etichette nelle quali tentano di rinchiuderci, le donne che lottano creano e sviluppano organizzazione e forza dentro le resistenze delle loro comunità e negli interstizi di ogni “margine”.
La forza di agire questo ribaltamento sta nella capacità di rifiutare tutti quei processi presentati come inevitabili e che ci riguardano come individui e come collettività. Il senso di isolamento e di sconfitta, la mancanza di speranza, l’idea che quello che succede alle nostre comunità e alle nostre vite sia frutto di un processo “naturale”. Che naturali – e per questo non modificabili – siano gli attuali rapporti di forza e di dominio, che naturali siano le forme di oppressione di genere e che inevitabile sia il giogo dello Stato. Le donne e le loro lotte indicano una rotta nuova che rifiuta questo modello, la rotta dell’autodeterminazione e dell’indipendenza.