Storia e lingua siciliana nei programmi scolastici, per non dimenticare ciò che siamo.
Il Governo regionale ha deciso che dal prossimo anno scolastico verrà introdotto nei programmi lo studio della storia e del dialetto Siciliano. L’annuncio è arrivato durante la sessione straordinaria della giunta regionale tenutasi ad Agrigento in occasione del 72° anniversario dell’Autonomia siciliana.
Un annuncio inaspettato quello della giunta che, nel tentativo di provare a dare l’impressione che lo statuto abbia ancora un peso per ciò che riguarda le politiche regionali, non ha niente di negativo, anzi. In un periodo storico in cui la dignità e la storia del popolo siciliano vengono quotidianamente calpestate, un investimento di questo tipo darebbe sicuramente un po’ di vigore alla nostra regione in cui lingua (e non dialetto) e identità sono strettamente legate.
L’ultimo provvedimento in materia risale al 1981, legge regionale del 6 maggio attraverso cui la regione si impegnava a dare sostegno e promuovere lo studio e la conoscenza del dialetto siciliano (e delle lingue delle minoranze etniche) intervenendo a favore delle scuole che programmavano attività integrative volte alla introduzione dello studio del dialetto ed all’approfondimento dei fatti linguistici, storici, culturali ad esso connessi. Di questo però a oggi non c’è nessuna traccia. Buone intenzioni, nessuna attività concreta.
Quante volte ai giovani d’oggi, da bambini, sarà capitato di essere ripresi e rimproverati per avere fatto uso del “dialetto” siciliano? L’avranno fatto i genitori per non fare brutta figura con gli amici o in compagnia di sconosciuti. E l’avranno fatto sicuramente anche maestri e professori a scuola tutte le volte che senza pensarci ci si è rivolti a loro non usando la lingua italiana. Eppure l’abbiamo sempre sentito e ascoltato, dalla nostra nascita. Dai nostri genitori, dagli zii, dai nonni e loro amici. Però, quando abbiamo cominciato pure noi ad avere la facoltà della parola, ad un certo punto arrivava sempre quel momento in cui il linguaggio sentito e parlato nel quotidiano diventava qualcosa da mettere da parte, da non utilizzare. Sì, perché ci sono quelle situazioni in cui quel linguaggio non stava bene e bisognava usarne un altro. E quindi invece di usare il “dialetto”, bisognava parlare la lingua italiana. Come se lingua italiana e dialetto stessero in un rapporto in cui il secondo fosse subordinato al primo e in quanto tale, il dialetto, nella vulgata comune, non poteva essere utilizzato in ogni contesto. Poche volte ci siamo chiesti il perché e quando lo facevamo, le risposte non erano molto esaustive o comunque lasciavano intendere che un motivo reale non ci fosse. Come se quel tabù dipendesse da una regola non scritta inserita dentro il calderone delle buone maniere. Questo nel tempo ha, però, portato a un utilizzo sempre minore del siciliano parlato. Sempre meno siciliani quindi parlano quella che è la loro lingua e non, come siamo stati abituati a pensare, un dialetto dell’Italiano. Sembra quasi che chi ha inserito questa regola non scritta nel calderone delle buone maniere volesse provare a cancellare le origini dei siciliani e la storia della Sicilia. Infatti, anche questa, soprattutto nei luoghi della formazione, viene trattata in modo molto superficiale o addirittura in senso revisionistico. Quanti sono gli avvenimenti storici di rilevanza che non conosciamo e che non vengono neanche trattati? Quanti invece quelli che vengono trattati ma con il punto di vista di chi, come detto sopra, vuole cancellare l’identità del popolo siciliano, le sue radici?
Molto spesso, quando al bar si discute di ciò che non va nel nostro paese – come il fisco, la giustizia o altro – si fa riferimento ad altri paesi in cui quella stesa cosa funziona alla perfezione. In questo caso potremmo prendere spunto dalla Catalogna o dai Paesi Baschi. Lì hanno resistito ai tentativi di cancellazione della storia e dell’identità e, ad esempio, nelle scuole usano il catalano e il basco, riconosciute come lingue ufficiale oltre quella dello Stato Spagnolo. Dovrebbe essere così anche da noi, e allora se questo annuncio diventa realtà – e non resta solo una buona intenzione – potrebbe essere l’occasione in cui un diritto viene garantito. Altrimenti avremmo comunque il tempo di conquistarlo.