Chi di (bio)speranza campa, disperato muore! Sulla “Green Refinery” di Gela
Ieri pomeriggio un incendio divampato nella Raffineria Eni di Gela ha fatto scattare il Piano di emergenza generale. Dai primi accertamenti, la causa sembra essere stata l’esplosione di un forno negli impianti di distillazione dell’Isola 8.
L’esplosione e il successivo incendio hanno messo in fuga gli operai che in quel momento erano al lavoro. Per fortuna nessun ferito. Una tragedia scampata in un luogo che da anni è avvelenato dalla presenza dell’impianto.
L’annosa e devastante presenza di Eni in Sicilia
Ci sembra allora doveroso tornare a raccontare chi è ENI e quali siano gli interessi del cane a sei zampe nella nostra terra. Nel 2019, dopo 4 anni dalla chiusura, Eni inaugura la Green Refinery. Tagli di nastri, strette di mano, baci e abbracci. E la nuova raffineria – con due anni di ritardo – è stata inaugurata.
Ma facciamo un passo indietro. L’interesse di ENI per il gas naturale risale alla metà del secolo scorso, dopo la scoperta a Caviaga, Cornegliano e Bordolaro dei primi giacimenti di metano. L’uso del metano a scopo industriale e domestico fu al centro delle politiche energetiche ed espansionistiche di Enrico Mattei. Negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso furono scoperti grossi giacimenti anche in Sicilia. Oggi il metano siciliano si produce in un’area che comprende tre provincie (Caltanissetta, Catania ed Enna) e 12 Comuni.
Negli ultimi anni ’70 ENI avvia l’esplorazione del “bacino ibleo”, in zone del gelese e del ragusano. Le ricerche si fermano poi negli anni ’90, anche in funzione dell’aumentata importazione di gas dalla Russia. Molte scoperte furono abbandonate, molti progetti ritirati, le raffinerie subirono un arresto di produzione.
In questi ultimi anni, invece, le cose sono cambiate. La crisi del petrolio ha spinto le compagnie più forti alla riconversione degli impianti, come è avvenuto nella Gela del petrolchimico e della sbandierata Green Refinery. A sentire la voce del colonizzatore ENI, sembrerebbe che produrre gas metano per usi domestici e industriali sia meglio che produrre benzina: inquina meno, costa meno, porta sviluppo, porta capitali, porta lavoro.
Ma chi è realmente ENI?
È una multinazionale, tra le prime dieci compagnie petrolifere del mondo insieme a Shell, Exxon, British Petroleum, Chevron, Total e Gazprom; è presente in 85 paesi, occupa 79 mila dipendenti, fattura ogni anno 100 miliardi di euro.
In passato, diceva di portare lavoro ai siciliani, ma portava morte, malattia, miseria sociale e culturale. Oggi a parole promette di ridare aria pulita, magari facendosi forte del fatto che il metano è invisibile all’aria, ma nei fatti si prepara a trasformare Gela e i paesi circostanti in enormi camere a gas, che potrebbero esplodere come piccoli e micidiali vulcani.
Dare ascolto alle favole di ENI sull’inquinamento, per chiunque conosca cosa hanno già significato per il territorio siciliano, è peggio che suicidarsi; è avallare l’omicidio di massa. Pertanto scordiamoci delle favole e guardiamo le cose come sono! Come per esempio guardando a quello che è avvenuto ieri, proprio nella Green Refinery.
I gasdotti sono davvero innocui?
D’altronde gli studi lo confermavano già. I rischi dei gasdotti nascono dalle variazioni di pressione nelle fasi di passaggio del metano dallo stato liquido a quello gassoso, dai conseguenti abbassamenti delle temperature interne, dagli innalzamenti di quelle esterne e dalle inevitabili perdite e sfiati.
Si tratta, come riconoscono tutti gli studi in materia, di emissioni pericolose per la salute e l’ambiente. Il metano è invisibile e inodore, quindi non se ne percepisce la presenza. Allo stato gassoso, è altamente infiammabile, può esplodere e incendiarsi quando è sotto pressione o subisce un improvviso riscaldamento – e ne abbiamo avuto la prova!
Oltre il danno la beffa!
Molti, negli anni, hanno affermato che ENI portasse benessere e lavoro al territorio di Gela. Ironia della sorte, però, Gela è una delle città siciliane con i più alti tassi di disoccupazione ed emigrazione giovanile.
La storia di Gela la conosciamo tutti. È la stessa della provincia di Siracusa (Augusta, Priolo, Melilli), di Milazzo e della Valle del Mela. Negli ultimi 5 anni nella storia di Gela, però, è cambiata qualcosa. La multinazionale di Stato nel 2014 ha deciso di chiudere e mandare tutti a casa. Lo ha fatto in accordo con il Ministero dello Sviluppo Economico, la Regione siciliana, Confindustria, il comune di Gela e i sindacati Cgil, Cisl, Uil e Ugl.
Nel protocollo d’intesa del 6 novembre 2014 le parti si impegnavano a garantire bonifiche e la riconversione industriale per il comune della provincia di Caltanissetta. La scusa usata da Eni per giustificare la chiusura è stata la riduzione dei consumi petroliferi che aveva comportato una perdita – dal 2009 al 2014 – di oltre 2 miliardi di euro. Così Eni si apprestava a investire 2,2 miliardi per il rilancio industriale dell’area.
Ed ecco che i fatti dimostrano come hanno soltanto trasformato la raffineria di petrolio in una raffineria di olio e gas. Sarà comunque una base logistica per far arrivare il gas naturale dalle piattaforme nel canale di Sicilia e farci il metano da immettere nella rete. Correlata, ci mettono la raffinazione di oli vegetali per dire che fanno bio carburante e green diesel.
Contro Eni con tutti i mezzi necessari!
Eni lo sa fare bene il gioco della mistificazione. Continuano a dire che investono in ricerca per le tecnologie bio e per la produzione di energia da fonti rinnovabili e che lo fanno per dare un contributo importante al green new deal. Vogliono far credere che smetteranno di usare fonti fossili e di inquinare. La realtà, però, è ben diversa ed è comprensibile anche per i meno attenti.
Tutto quello che hanno fatto a Gela lo hanno spacciato per rivoluzione verde. Come se fosse una grande occasione per la cittadina. Grazie a questo progetto, dopo anni di devastazione, la città (e tutta l’area) sarebbe dovuta rinascere.
Eppure, a tre anni dall’apertura della Green Refinery non sembra essere cambiato molto. E allora, che fare? ENI continuerà a strombazzare i soliti alibi del metano che non inquina e dei posti di lavoro che mancano e i politici fanno e faranno finta di niente, come sempre.
Allora, ancora un volta, è necessario che l’opposizione popolare si faccia risentire con forza. Occorre riaffermare con decisione che i progetti di devastazione territoriale, anche sotto la falsa veste del BIO, sono figli di un modello di sviluppo centrato sugli interessi delle grandi imprese e non sugli interessi delle comunità territoriali.
Abbiamo bisogno di prendere nelle nostre mani le sorti del territorio. Altre strade non ce ne sono. La forza trasformatrice sta nelle mani di chi i territori li abita e li difende; nelle mani dei pescatori, dei disoccupati, dei precari, di tutti quelli che non intendono emigrare, di chiunque desideri vivere in un ambiente sano, accogliente, pacifico e, per dirla tutta, indipendente dal capitale.