Territori contro lo Stato. Alcuni spunti di discussione

Territori contro lo Stato. Alcuni spunti di discussione
Riunitosi attorno a parole d’ordine come territori, indipendenza e decisionalità, ANTUDO ha scelto di richiamare già nel proprio nome uno degli eventi più noti della storia della Sicilia, la rivolta dei Vespri del 1282. In quella occasione il motto “ANimuus TUus DOminus”, e il suo acronimo AN.TU.DO (tradotta oggi con l’espressione “il coraggio è il tuo Signore”) venne utilizzato nella cornice di una gigantesca sollevazione popolare contro un feroce potere coloniale e centralizzato.

Molti secoli dopo, in uno scenario politico segnato ancora dall’efferatezza del dominio, questo motto continua a parlarci. Ci dice che nei nostri territori è ancora tempo di ribellarsi all’ “arroganza dei poteri centrali”, come si legge in uno striscione che sfila spesso nei cortei che attraversiamo, e che per farlo dobbiamo mobilitarci localmente, scrivere incessantemente, esporci senza risparmiarci. Nelle pagine seguenti ripercorriamo alcune riflessioni teoriche legate in particolare ai concetti di “territorio” e “istituzioni”. Infine, concludiamo offrendo degli spunti di discussione sui comitati territoriali che operano in realtà urbane ed extra-urbane in Sicilia e sul loro potenziale trasformativo nel segno dell’indipendenza.

Territorio: il cuore del discorso indipendentista di ANTUDO

ANTUDO ha ripescato dal vocabolario della storia dei conflitti sociali la parola “indipendenza”. Ad alcune parti dei movimenti sociali italiani è parsa una incongruenza storica e politica, ad altri, come ai sicilianisti, è parsa una bella cosa. Per i primi, che spesso si muovono all’interno di un sistema di riferimenti legato alle narrazioni rivoluzionarie del secolo XIX, ANTUDO sarebbe caduta in una sorta di sciovinismo rinunciando all’internazionalismo. Per i secondi ANTUDO sarebbe finalmente approdata dalla parte “giusta”, quella della rivendicazione su una smarrita nazionalità e su un mancato Stato siciliano. Con buona pace degli uni e degli altri e deludendo le certezze di entrambi gli schieramenti, ANTUDO si pone in netta contrapposizione sia con le istanze nazionalistiche (di destra e di sinistra), sia con le riproposizioni statalistiche che in gran parte della sinistra italiana permangono nel mito dello Stato socialista.

Per ANTUDO la “nazione” è una astrazione ideologica, un’invenzione della borghesia ottocentesca il cui unico scopo è stato quello di annichilire/incorporare le molteplicità territoriali e legittimare lo Stato come detentore del monopolio del potere. È lo Stato che crea la Nazione, che costruisce il suo “sentimento” e lo costruisce dopo aver sottomesso alla sua sovranità le diverse realtà territoriali e le popolazioni abitanti. La Sicilia, allora, è la cornice in cui ANTUDO si muove e che, fuori dalle interpretazioni di tipo nazionalistico, viene letta come bioregione e ambito di autogoverno comunitario. 

In una fase di dominio del capitalismo multinazionale acquista portata strategica guardare politicamente alle particolarità dei territori, alla loro singolarità, alle loro tante specificità. Per questo la prospettiva di ANTUDO muove verso il superamento di un’unica, ideologica, storia nazionale e oltre la drammaticamente concreta forma coercitiva dello Stato a discapito delle tante storie territoriali.

Per ANTUDO rimane un errore pensare a soluzioni e proposte politiche che abbiano come obiettivo finale la presa dello Stato, poiché solo la “dispersione” dei poteri nei territori apre la possibilità a forme di indipendenza politica ed economica in grado di contrastare attivamente l’incessante ciclo di accumulazione ed espropriazione capitalistica. Ha ormai raggiunto maturazione e consistenza storica la possibilità e l’indispensabilità di pensare a società senza Stato, territori indipendenti capaci di porsi fuori dalle dinamiche politiche della competizione interstatale che si muove verso il conflitto bellico mondiale, e fuori anche dalle dinamiche della produzione e del consumo segnanti dal capitalismo. L’indipendenza, allora, è considerata come un processo di emancipazione duplice: indipendenza dalle forme politiche (in primo luogo lo Stato ossia la concentrazione dei poteri) e dalle forme economiche (il modo di produzione/riproduzione ed i diversi modelli produttivi che da esso discendono e che per la sua perpetuazione vengono di volta in volta imposti sui territori).

In questo senso il confederalismo di territori autonomi e indipendenti emerge come soluzione politica alle contraddizioni esplosive e allo stato di catastrofe permanente cui le formazioni sociali capitalistiche e gli Stati – che ne sono espressione amministrativa – hanno condotto il pianeta. Si legge nella sezione “Chi siamo” del sito: “Ad ANTUDO fanno riferimento le realtà sociali che si muovono per l’autodeterminazione e l’autogoverno dei territori”. E ancora: “Riprendersi il potere di deliberare i modi della propria esistenza sui territori che abitiamo è ciò che chiamiamo indipendenza. Autodeterminazione e autogoverno fuori dalle logiche del profitto ne rappresentano il contenuto essenziale”.

Territorio come relazione

Il concetto di “Territorio” è certamente il nucleo di senso attorno a cui ha preso avvio la riflessione che ha dato vita ad ANTUDO. Il Territorio è il cuore attorno a cui si sviluppano, poi, altri elementi del discorso: abitare, Comune, comunità, indipendenza, autogoverno. Ma cosa è territorio?

Nei discorsi prodotti in seno ad ANTUDO, tale concetto vuole indicare l’insieme di relazioni tra abitanti e porzione di terra abitata. Se si intende il territorio nel suo rimando etimologico (-torium, forse preso da tor, con valore di agente in Pianigiani, 1991) ossia come la parte di terra agita, messa a disposizione, appare immediato il suo contenuto relazionale. Nell’agire, nell’operare, nel disporre, infatti, si stabiliscono precise relazioni con la terra (l’ambiente fisico con i suoi “linguaggi”), con altri umani (il complesso di relazioni interpersonali che si determinano nello specifico dando luogo a fatti economici, sociali, politici, culturali), con il costruito (le architetture, gli insediamenti, le vie, le sistemazioni agrarie). La trama di queste relazioni va concepita come rapporto tra elementi dialoganti, che stabilisce coappartenenza e reciprocità. Sono queste relazioni reciprocamente orientate che costituiscono la fisionomia del territorio. Questa trama relazionale e costruita in processi co-evolutivi racconta le storie dei territori, ne costituisce le identità: da e in questa trama si producono quelle emergenze che chiamiamo luoghi. Il territorio, allora, è costituito dai luoghi che gli abitanti vivono, praticano, condividono e dove si strutturano i processi dell’identità condivisa, ma anche di quella particolare e singolare.

Sono gli abitanti a riconoscere il territorio attraverso la frequentazione dei luoghi che lo caratterizzano, perché è nei luoghi che lo si abita ed è abitando che si danno i luoghi. Sono i luoghi dell’abitare che costituiscono i riferimenti del territorio, la sua familiarità, la percezione dell’identità. Il territorio come sistema di luoghi si frantuma e neutralizza, si perde nei suoi caratteri e nella sua fisionomia non appena le relazioni di cui è espressione sono sottratte all’esperienza dei corpi di chi lo vive, nel momento in cui gli abitanti cessano di essere ad un tempo gli agenti e gli interpreti della sua organizzazione. È esattamente contro questo processo di neutralizzazione che prende corpo la visione di ANTUDO sulle forme di organizzazione delle comunità e sul loro modo di produzione. Si legge in un documento inedito circolato all’interno dell’assemblea: 

«Lo Stato-Capitale –– ha come elementi costitutivi sovranità, popolo e territorio dove, naturalmente, la sovranità è elemento preminente. Ma se è vero – come sostiene il diritto – che lo Stato realizza il suo “più alto grado di effettività” entro quello che statuisce essere il “suo” territorio, allora l’indebolimento o l’eliminazione sui territori di questa “effettività”, costituisce la via da seguire per liberarsi dalla sua sovranità e la premessa a qualsiasi forma di autogoverno. Senza territori “propri” (riprendendo una espressione di Zibechi riportata da Calabria) non è possibile “costruire nessuna autonomia, né poteri non-statali, né autogoverno”. I territori sono oggi gli spazi predisposti e organizzati da funzionari delle burocrazie statali e affaristi del profitto, ma sono anche i nostri spazi vitali, sono cioè i luoghi in cui ci relazioniamo, in cui produciamo e ci riproduciamo, sono gli spazi entro cui sopravviviamo. E poiché ci sopravviviamo nel sempre più diffuso malessere, riteniamo nostro diritto di abitanti prenderci il potere di decidere su come organizzarci, su come e cosa produrre e su come riprodurci in quanto comunità di abitanti». 

In “Chi siamo” ANTUDO sostiene che la prospettiva dell’autodeterminazione e dell’autogoverno si costruisce nella lotta per “partecipare direttamente alle decisioni che riguardano l’economia della e per la comunità; alle decisioni che riguardano i modi e i versi del territorio urbano ed extraurbano; al riconoscimento del proprio patrimonio culturale, storico, ambientale”. È a partire da queste premesse che ANTUDO definisce “Indipendenza” come parola nuova che segna – nell’epoca del dominio reale del capitale – la rivolta sociale contro forma-Stato, modo di produzione e suoi modelli di sviluppo. 

Le nuove istituzioni per l’indipendenza

Un ulteriore nodo centrale della riflessione teorica e dell’azione orientata all’indipendenza dei territori riguarda le istituzioni e il loro potenziale trasformativo e costituente. Nell’analisi di ANTUDO la pratica dell’indipendenza è la risposta alla crisi della forma statuale e all’affermarsi di forme di dominio sovranazionale. Lo Stato si trova a essere più che mai disarticolato, frammentato, nonché in certi ambiti e meccanismi allineato alle logiche del capitale e costituito da criteri imprenditoriali. Il passaggio all’indipendenza contiene la decisione di prendere congedo dallo Stato come soggetto che assorbe l’intera struttura sociale e come forma istituzionale che si rappresenta come custode dell’interesse generale. 

La crisi generalizzata delle coordinate politiche moderne segna una nuova logica di riconfigurazione economica e geografica, fatta di periferie consegnate all’assoggettamento di processi che si fanno sempre più predatori e che desertificano i territori, risucchiando risorse umane e ambientali. Attraverso gli strumenti statuali l’affermazione dell’egemonia esercitata dalle élite viene praticata attraverso un complesso sovrapporsi di piani: politico, economico, culturale, morale. Piuttosto che essere il superamento degli interessi particolari lo Stato si configura come lo strumento che conserva e riproduce gli egoismi e il predominio di coloro che stanno in alto nelle gerarchie sociali, economiche, politiche.

L’alternativa è costituita da quelle pratiche, lotte, istituzioni che aprono su un avvenire non capitalista e che permettono di dare forma politica all’autogoverno locale attraverso un insieme di relazioni che si traducono in forme di organizzazione. In questo senso l’indipendenza si oppone all’attività gerarchica del potere nel campo della produzione, della formazione, della cultura, della gestione dei servizi di welfare, dell’amministrazione pubblica, della decisione, della relazione con i conflitti che attraversano la società.  L’urgenza di una pratica politica volta all’indipendenza è quindi quella di pensare a nuove forme di organizzazione sociale, mediante istituzioni in grado di rendere giustizia all’intelligenza sociale e collettiva di ogni territorio.

Il ragionamento sull’impellenza di nuove istituzioni, allora, è, da una parte, dettato dalle stesse trasformazioni della sfera politica e, dall’altra, dalle istanze connesse alla creazione di nuove soggettività. I conflitti in corso, che si muovono sull’asse della dimensione territoriale, esprimono l’esigenza di istituzioni altre, fondate su pratiche radicali, esterne rispetto alle strutture statali. La garanzia di queste nuove istituzioni sempre in formazione risiede in figure, procedure e meccanismi che si costruiscono nelle relazioni fra gli esseri umani, cioè nello sviluppo continuo di processi aperti e inclusivi di auto-organizzazione oltre e contro la sovranità.

In quest’ottica l’indipendenza emerge come pratica di natura costituente. Le istituzioni non sono da intendere come un luogo originario o pacificato, ma piuttosto come un campo del conflitto, uno degli spazi in cui si gioca la partita dell’indipendenza. Immaginare e costruire l’indipendenza significa immaginare e costruire le istituzioni dell’autogoverno. Queste non possono essere create attraverso un atto normativo, come prefigurato dalla prospettiva istituzionalista classica, ma al contrario, sono figlie di un’azione sociale creativa, fondata sulla base di un bisogno che può essere soddisfatto solo attraverso il concorso di una comunità. Per ANTUDO le istituzioni dell’indipendenza rappresentano un sistema organizzato di mezzi non volto alla repressione o alla limitazione, ma a dare forma ed espressione della creatività sociale.

Le istituzioni in quest’ottica parlano del legame che intercorre tra immaginazione e politica, ovvero della capacità di prefigurare scenari alternativi a quello presente, avendo la consapevolezza che l’istituito può essere deposto e sostituito da una nuova istituzione, diretta espressione della propria forza istituente. Le istituzioni dell’autogoverno hanno l’obiettivo di rompere le filiere gerarchiche e restituire il potere alla comunità. Investendo tutto il vivere sociale, esse agiscono nella cultura, nei servizi, nell’amministrazione, nella comunicazione, nella socialità. Attraverso le istituzioni dell’autogoverno le comunità decidono, gli abitanti si appropriano del proprio destino, esercitano una democrazia piena.

I comitati territoriali come base delle nuove istituzioni

Se l’indipendenza è rottura da ogni forma di dominio, essa è anche ri-costruzione di legami nuovi, di co-dipendenze, che possano fiorire nel solco delle storie e delle identità dei territori.

Nell’esperienza incarnata di ANTUDO sono i comitati territoriali, e le reti in cui si organizzano, la prefigurazione di istituzioni dal basso che, in contraddizione con quelle vigenti, conoscono i territori e le esigenze concrete e reali che questi esprimono. 


A partire da una o più contraddizioni che investono ogni singolo territorio (costruzione di discariche, chiusura di ospedali, imposizione di grandi opere) i comitati, intesi come insiemi di persone che si organizzano per conseguire un determinato scopo, diventato a tutti gli effetti il centro della politica dal basso, il cuore pulsante delle comunità che si organizzano per lottare e per costruire parallelamente un altro modo di abitare e di intessere relazioni. Centrando le proprie prospettive politiche sulle lotte espresse dai territori, ANTUDO dalla sua genesi contamina ed è contaminato da gruppi, movimenti e reti di comitati fortemente ancorati alle esigenze locali. Nella città di Messina, ad esempio, questo ha significato intersecare le proprie rivendicazioni con la mobilitazione contro il ponte sullo Stretto. La storia della grande opera si connette, infatti, in modo emblematico all’analisi politica di ANTUDO sui processi decisionali e sulla logica estrattivista sperimentata nei territori siciliani. 

A stagioni alterne, negli ultimi 40 anni, l’opera è riapparsa nel dibattito politico, rievocata come parola d’ordine nelle diverse campagne elettorali o come imperativo delle grandi imprese General contractor. In una visione centralistica dell’opera, che azzera tutte le procedure di consultazione con le amministrazioni locali e i cittadini, viene portato avanti l’iter della costruzione attraverso una logica che fondamentalmente è quella dello stato di eccezione giuridica. Al di là della sua realizzabilità (fortemente messa in dubbio per motivi di ordine strutturale-ingegneristico, economico e per la mancanza di un progetto definitivo) il ponte emerge così nella sua veste di potente dispositivo narrativo, volto ad una costruzione della realtà dipendente da interessi e posizionamenti specifici, in cui il modello “culturale” dominante delle Grandi Opere, viene proposto come la modalità di intervento straordinaria per intervenire sui territori.

La questione del ponte parla quindi di differenti piani di tensioni che si coagulano intorno alla sua realizzazione. È emblema di un deficit di coinvolgimento del territorio e di uno scollamento tra volontà popolari locali e Stato centrale. Parla poi, anche, di un conflitto tra differenti visioni di sviluppo per l’area dello Stretto e di immaginari contrastanti in merito alle priorità di intervento in un territorio fortemente segnato da vulnerabilità economiche, sociali e ambientali. 

È proprio la critica al modello di sviluppo a percorrere e animare, oggi, l’azione di molti comitati territoriali. Un richiamo in questo senso merita il caso della Rete dei Comitati Territoriali Siciliani. Nata nel 2017, la Rete è un’assemblea permanente di comitati che si riuniscono su base territoriale e si mobilitano per la difesa dei territori in cui vivono. Al centro del discorso della Rete, strettamente intrecciato a uno sguardo diverso al rapporto tra comunità e natura, c’è la questione di come decentralizzare la decisionalità e redistribuirla nei territori. Costituitasi ad oggi solo informalmente, la Rete viene promossa a partire dall’esperienza di lotta portata avanti dal Coordinamento per il territorio No Discarica Armicci – Bonvicino di Lentini, che in quegli anni si batteva contro la costruzione di una ennesima discarica nel territorio tra Lentini e Carlentini. L’assemblea oggi considerata “fondativa” era stata preceduta da numerosi altri momenti di incontro, scambi e relazioni che si sono date nelle lotte siciliane da ben prima del 2017.

I comitati territoriali che si riconoscono nella Rete hanno in alcuni casi molti anni di lotte alle spalle e strutture organizzative variegate e originali, che si muovono dentro un ampio spettro che va dall’associazione formalmente costituita al collettivo, o al coordinamento di gruppi. La varietà dei comitati presenti dentro la Rete e la critica al modello di sviluppo estrattivo che attacca le vite di chi abita le cosiddette “zone di sacrificio” (come quelle dentro cui questi comitati si organizzano), hanno permesso alla questione centrale della decisionalità di assumere una prospettiva radicale di trasformazione: a passo di formica i comitati pongono le basi perché questo modello devastante venga messo in crisi.

Dopo la pandemia in un contesto caratterizzato da una generale politicizzazione delle questioni legate alla salute e alla cura, si sono moltiplicate le iniziative e le mobilitazioni che hanno riflettuto sulla centralità della cura e delle pratiche di riproduzione sociale delle comunità, sulla necessità della medicina territoriale, sulle disuguaglianze territoriali legate all’accessibilità dei servizi.

Nei territori siciliani il tema della salute non era certo nuovo: già da tempo nei quartieri delle grandi città si provava ad auto-organizzarsi contro lo smantellamento del sistema sanitario, mentre nelle aree cosiddette “marginali” o “periferiche” si combatteva per difendere gli ospedali locali da violenti processi di centralizzazione. In linea con questo percorso di discussione e ragionamento, nel 2021 prendono vita i primi incontri del coordinamento Comitati Per le Salute Sicilia, una rete di gruppi e comitati che si organizzano a partire dall’attacco al diritto alla salute. Questo ha permesso di rilevare importanti connessioni: spesso le geografie dell’attacco alla salute, della chiusura dei punti nascita e dei reparti oncologici, coincidevano con la costruzione di mega impianti nocivi, di discariche o di opere imposte, producendo e riproducendo geografie estrattive. Il paradigma estrattivo che regola queste relazioni è per noi evidente: nei territori sacrificabili si manifesta la realtà materiale e corporea della violenza prodotta dai processi economici governati dalle logiche dello Stato. Mentre le zone di sacrificio, svuotate e resi inabitabili in nome del profitto, si moltiplicano davanti ai nostri occhi, occorre sempre più costruire pratiche di diserzione:

“In quest’epoca definita un’epoca delle tante crisi – crisi economica, climatica, ambientale, sanitaria – riteniamo che ricentrare la decisionalità a partire dai territori, a partire dalle concrete esigenze delle terre e degli abitanti, sia una pratica fondamentale di diserzione” (ANTUDO Lentini, 2022, intervento integrale consultabile sul sito)

A fianco delle esperienze delle Rete dei comitati Territoriali Siciliani e dei Comitati per la Salute Sicilia, altre forme di comitati territoriali si sono moltiplicate negli ultimi anni. Nei casi delle realtà cittadine di Catania e Palermo, i comitati territoriali non nascono in reazione a una diretta minaccia al territorio o in contrapposizione a forme esplicite di sfruttamento: spesso i loro punti di partenza sono invece i legami che si conservano dentro i quartieri popolari delle città e la necessità di organizzarsi per fare fronte ad alcuni dei bisogni materiali espressi dalle comunità. Le esperienze dei comitati di quartiere nelle città di Palermo e Catania hanno storie simili: essi nascono a partire da spazi occupati e autogestiti dentro alcuni quartieri della città, da relazioni storiche con gli abitanti e con il tessuto sociale. Questo processo, sebbene non possa essere sviluppato approfonditamente in questa sede, ripercorre un cambio di rotta radicale all’interno delle realtà politiche di queste città e si inserisce nel solco del ragionamento che ANTUDO porta avanti.

L’idea che la forma comitato non vada ascritta solo alle lotte e alle realtà extra-urbane ma che possa essere invece la nuova forma di organizzazione della politica nelle dimensioni cittadine e metropolitane è una consapevolezza acquisita negli anni, nel tentativo di ri-immaginare la politica dal basso che come motore di cambiamento ma anche come strumento di coinvolgimento della società nei processi decisionali che riguardano gli abitanti. Dentro le sedi dei comitati ci sono palestre, ambulatori e consultori popolari, esperienze di mutualismo legate alla distribuzione alimentare o di beni di prima necessità per le donne.
L’obiettivo è che dentro questi spazi, fisici e di decisionalità, le persone possano sperimentare le forme dell’indipendenza nella loro quotidianità e rispondere all’attacco esplicito e duplice dello Stato ai territori: tanto sul piano della possibilità di riproduzione della vita degli abitanti, in termini di privazioni economiche, ecologiche e sanitarie, che sul piano delle relazioni che innervano la società, frammentando e disarticolando i legami sociali. 

“Ogni cosa, ogni relazione sembra ormai essere per il capitale, ma la massa di contraddizioni che da questo “essere per il capitale” scaturiscono possono diventare il punto di forza e il terreno di confronto tra chi nei territori ancora si muove per la costruzione di relazioni non soggiogate dalla logica del profitto e chi del profitto ne fa il suo “contenuto assoluto. È a partire da queste contraddizioni che si organizzano i modi della ricomposizione sociale contro le logiche del profitto”(ANTUDO, 2017, scritto integrale consultabile sul sito).

L’obiettivo dei comitati, sia che si formino su base di quartiere\città che in contrapposizione ad opere nocive, rispondono quindi alla volontà di contrapporsi concretamente e in varie forme – dai blocchi alle azioni legali – ai tentativi di distruzione dei territori, e contestualmente, mentre si lotta, alla volontà di ricostruire quel tessuto che viene continuamente attaccato, per ricostruire legami radicati e radicali che non possono essere spezzati dalle logiche del dominio e dello Stato.

 

 

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