Una storia da riconfigurare

Una storia da riconfigurare

Le lotte indipendentiste in Sicilia (1943-1948).

Tra il 1943 e il 1948, a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, si è acceso in Sicilia uno scontro di classe il cui esito ha segnato la storia e gli assetti attuali della nostra società. Nel quinquennio, in campagna come nei centri urbani, si è combattuta una dura e sanguinosa battaglia, spesso ignorata e ancor più spesso deformata dalla storiografia di regime. Fin dal suo inizio, le istanze separatiste non hanno cessato di attrarre contadini, braccianti,operai e proletariato urbano, scesi in campo contro il fascismo e per affrancarsi dai padroni. Per molti di loro l’indipendentismo, il disegno di una repubblica sociale e il comunismo andavano di pari passo. Sottovalutato dalla stragrande maggioranza degli storici, o considerato in base ad uno solo degli aspetti della sua complessità, quel conflitto di classe si è alimentato nell’intreccio tra le lotte contro la proprietà fondiaria e lo sfruttamento del lavoro contadino e operaio, contro la miseria dilagante nelle campagne e nelle città e, non ultime, contro le politiche “nazionali”, prime responsabili delle drammatiche condizioni in cui versavano sia i ceti subalterni, sia quelli medio-bassi.

Nell’inverno del ’43, ancor prima dello sbarco anglo-americano, in diverse provincie dell’agrigentino e del trapanese si erano registrati scontri di piazza, scoppiati durante le prime manifestazioni resistenziali per la separazione dall’Italia fascista. Nell’estate del ’43 esplosero tumulti particolarmente duri contro i tedeschi e i fascisti, soprattutto nel catanese; i massacri di Mascalucia e di Castiglione di Sicilia furono le risposte degli eserciti occupanti, spesso coadiuvati dai carabinieri. Nel ’44 i moti si diffusero in più di quaranta paesi, quattro dei quali riuscirono, anche per brevi periodi, ad autoproclamarsi repubbliche indipendenti; nacque l’EVIS (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia) e il GRIS (Gioventù Rivoluzionaria per l’Indipendenza della Sicilia), formazioni che scelsero la lotta armata per avanzare le rivendicazioni indipendentiste; nelle Eolie si formarono gruppi indipendentisti caratterizzati da una fortissima componente popolare; nell’autunno a Palermo, alla vigilia del 1° Congresso del partito indipendentista (MIS), furono uccise 24 persone “colpevoli” di rivendicare il pane; intanto, l’antimilitarismo si concretizzava nel movimento del Non Si Parte, che raccoglieva quanti rifiutavano di arruolarsi nell’esercito italiano e talvolta sceglievano di darsi alla macchia. Non meno drammatico il ’45: fin dai primi di gennaio esplosero rivolte a Ragusa, Comiso, Palazzo Adriano, Piana dei Greci, per ricordarne solo alcune; nella primavera dello stesso anno si registrarono rivolte contro l’ammasso a Vicari, a Caccamo, a Mazzarino, a Gela, a Caltanissetta. A fianco dei contadini, nell’agosto si rivoltarono i minatori e, qualche mese dopo, si sollevò l’intera popolazione catanese. Il 1945 si chiuse con diversi conflitti a fuoco tra le popolazioni insorte e le “milizie d’Italia”: il 17 dicembre due dimostranti furono uccisi a Vizzini, il 26 a Bivona i contadini armati si scontrarono con i carabinieri, il 29 tra l’esercito e i separatisti di Concetto Gallo si accese la sanguinosa battaglia di Monte San Mauro. Nel ’46, a guerra conclusa, nel corso di una manifestazione contro i grossi proprietari terrieri, a Caccamo, vennero uccisi 20 braccianti e 60 rimasero feriti. A Naro restò ucciso Pino Camilleri, dirigente delle lotte contadine. A Joppolo, nell’agrigentino, nel novembre dello stesso anno cadde Giovanni Severino, e ancora a Baucina il segretario della locale Camera del Lavoro. A Santa Ninfa nell’ottobre del ’46 venne colpito a morte un contadino, Giuseppe Biondo, che si batteva contro l’ammasso e contro la prepotenza dei latifondisti. L’anno successivo vennero uccisi altri capi delle rivolte contadine e molta gente comune; l’8 maggio è la volta di Portella delle Ginestre, avvenuta poco prima dell’uccisione di Pietro Macchiarella, un combattente contadino di Ficarazzi; nel giugno sono uccisi Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lo Jacono; il 1947 si conclude con la strage di Canicattì, in cui tre contadini vennero colpiti a morte dai carabinieri. Nel ’48 cadono Epifanio Li Puma,Placido Rizzotto, Calogero Cangelosi. Sono solo alcuni episodi di una lunga scia di sangue che viene raccontata a pezzi, talvolta richiamandosi interamente ai rapporti delle prefetture. Alle lotte popolari il governo rispondeva con gli eccidi di lavoratori e di militanti sindacali: dalla strage di Palermo a quella di Murazzo Torto, in cui persero la vita Canepa e tre militanti dell’EVIS, da Caccamoa Portella è una lunga catena di massacri. Sebbene alcuni sindacalisti uccisi non facessero personalmente parte del Movimento Indipendentista, tuttavia la base sociale delle rivolte sentiva sempre forte il bisogno di separarsi dall’Italia e dare vita a una repubblica socialista indipendente.

Le rivolte presero le mosse da una crisi che si manifestava nel settore trainante dell’economia siciliana, l’agricoltura. Esse ebbero uno spiccato carattere territoriale: territoriali essendo la loro direzione, le piattaforme programmatiche, l’aspirazione repubblicana e all’autogoverno. Come scrive Francesco Renda in Il movimento contadino in Sicilia, in Sicilia più forte che altrove è la componente regionalistica, e le lotte agrarie, più accentuate che altrove, presentano elementi di particolarità e di specificità, che sembrano farne un fenomeno particolare, distinto se non diverso e staccato dal resto d’Italia e dello stesso Meridione.

I conflitti negli anni a cavallo della guerra si sonosviluppati nel contesto di una pesante crisi economica e delle gigantesche devastazioni provocate dai bombardamenti. Oltre agli ingenti danni materiali,la crisi economica e alimentare fece crollare l’economia locale. I generi di prima necessità erano razionati; il grano raggiunse le 900 lire al quintale, un prezzo di molto inferiore alle 1500 lire che occorrevano per produrlo; i medicinali scarseggiavano e i pochi che si riusciva a trovare dovevano pagarsi a prezzi inaccessibili; il valore delle terre coltivabili e delle case era in continuo rialzo mentre crollava il costo del lavoro e dilagava la disoccupazione. A tutto ciò il popolo cercava riparo con espedienti come il baratto, il commercio ambulante, il mercato nero (l’Intrallazzo), e perfino la svendita di beni personali, suppellettili, arredi di casa.

Le prime rivolte separatiste si erano manifestate prima dello sbarco americano; forte della presenza degli “alleati” il separatismo si fece partito. Finocchiaro Aprile, Carcaci, Lanza, Varvaro e altri diedero vita al MIS, la cui base di massa doveva essere la Lega Giovanile Separatista. All’arrivo degli “alleati” un manifesto annunciava alla cittadinanza gli obiettivi del Comitato per l’Indipendenza: si dichiarava decaduta la monarchia e, con essa, l’obbligo statutario, sancito dal plebiscito del 1860, di fedeltà da parte dell’isola all’unità nazionale; alcuni dirigenti del MIS, certamente mossi da pie illusioni,fecero richiesta agli americani e agli inglesi di proclamare la Repubblica Siciliana.

Gli “alleati”, però, altro non erano che dei “conquistadores” e tali si dimostrarono dopo aver messo piede sull’isola. L’80% dei comuni venne consegnato a personaggi chini alle volontà degli invasori; le violenze e le torture alla popolazione si ripetevano quotidianamente; con una mano gettavano alle folle affamate caramelle e cioccolatti, con l’altra sganciavano tonnellate di bombe. Le promesse di fare della Sicilia uno stato indipendente vennero prontamente ritirate. Il legame con America e Inghilterra aveva spinto esponentidi primo piano del MIS a professioni di fede anticomunista e antisovietica; da quile prime contraddizioni con i comunisti Varvaro, Crisafulli, Sirio Rossi, Canepa e altri.

Il PCI siciliano è inizialmente molto legato alll’indipendentismo – Li Causi (primo segretario del PCI siciliano) scriveva: “Noi comunisti di Sicilia siamo stati in certo qual modo e continuiamo ad essere dei separatisti”. Contro questa linea si mossero sia Togliatti che il sovietico Vishinskij (che già nel ’43 aveva illustrato ai comunisti siciliani la politica estera sovietica, rispettosa degli accordi di Yalta e, pertanto, contraria ad ogni forma di indipendenza). Togliatti accusò di fascismo i separatisti, fingendo di ignorare che l’intera compagine indipendentista aveva preso le mosse dall’antifascismo.

I partiti “nazionali” più volte dichiararono la propria avversità all’indipendentismo. Le leadership togliattiana e degasperiana erano favorevoli all’autonomia purché, s’intende, la si esercitasse nel rispetto della nazionalità. Togliatti trasformò alla radice la politica meridionalistica di Gramsci: contro la strategica alleanza di contadini e operai, Togliatti credeva necessario allargare il solco tra le due componenti di classe, convinto che in questo modo la loro crescita politica potesse avanzare senza ostacoli e ritardi. La presunta subalternità culturale dei contadini sarebbe superata, pensava il segretario comunista, con la loro trasformazione in piccolissimi imprenditori e proprietari. Il movimento cooperativo veniva concepito come lo spazio economico e politico di una tale metamorfosi.

Sono note le divergenze tra la linea “nazionale” del PCI e quella elaborata all’interno del PCI siciliano. Perfino Li Causi, dirigente comunista sicuramente anti-separatista, alle accuse denigratorie sull’indipendentismo rispondeva distinguendo tra “separatismo malizioso” – legato alle manovre dei baroni e dei latifondisti – e il “separatismo praticato dalle masse”. Agli attacchi del partito di Togliatti rispondevano giornali come “Sicilia rossa”, organo del partito social-comunista siciliano e convinto sostenitore dell’indipendentismo. “Sicilia rossa” propagandava la democrazia diretta e l’autogoverno, contrapponendole al parlamentarismo nazionalistico di marca badogliana. L’asprezza del rapporto tra i comunisti siciliani indipendentisti e gli unitaristi guidati dalla cricca togliattiana è generalmente riconosciuta; come leggiamo in un articolo di “Sicilia rossa”, che rispondeva alle accuse di “immaturità proletaria” rivolte ai comunisti siciliani dal PCI togliattiano:

Noi social-comunisti siciliani diciamo agli pseudo rivoluzionari di Roma che qui in Sicilia non c’è posto per loro, e che i lavoratori siciliani hanno raggiunto un elevato grado di evoluzione politica e sociale da poter reggere e dirigere le redini di un libero stato proletario: del libero stato proletario di Sicilia.

In risposta alle rivolte nelle campagne, il ministro togliattiano Gullo a partire dal 1944 diede il via ad una riforma agraria che conobbe diverse tappe, per giungere alla trasformazione imprenditoriale del sistema di produzione agricolo. Ufficialmente, i “Decreti Gullo” sono presentati come soluzioni “democratiche” alla questione agraria, sebbene nei fatti il loro compito è stato di trasformare le lotte contro l’oppressione in lotte per la proprietà della terra.Il punto principale dei Decreti riguardava l’assegnazione delle terre incolte ai contadini, ma a condizione che essi decidessero di associarsi in cooperative.I Decreti gettarono discordia nel movimento contadino, rompendo l’unità di  braccianti e piccoli proprietari, ponendo in primo piano la formazione di cooperative agricole, sostituendo alla voce delle masse contadine quella dei “patroni” dell’USCA (Unione Siciliana Cooperative Agricole); in altre parole, invertendo le richieste di giustizia sociale e di autogoverno in richieste per il possesso di qualche metro quadrato di terra.

Qualche storico, esageratamente ottimista, si è addirittura spinto a paragonare la politica agraria di Gullo alle esperienze delle terre comuni nei soviet dell’URSS. Ancor prima della rivoluzione bolscevica, Lenin andava ripetendo che i contadini dovevano battersi per la nazionalizzazione di tutte le terre; l’abolizione della proprietà privata della terra, secondo Lenin, può avvenire solo attraverso la sua nazionalizzazione, attraverso la sua trasformazione in “proprietà collettiva”. Al terzo punto del suo progetto di risoluzione sulla questione agraria (Lenin: 22 maggio 1917) si legge: ” La proprietà della terra dev’essere in generale abolita, cioè il diritto di proprietà di tutte le terre deve appartenere soltanto a tutto il popolo.” Altro che il passaggio della “proprietà individuale” dalle mani del latifondista a quelle del piccolo contadino, che il PCI togliattiano presentava come una grande strategia rivoluzionaria. La “linea leninista”, al contrario, ispirava i comunisti siciliani indipendentisti, i quali all’Art. 3 del loro programma chiedevano, come leggiamo in “Sicilia rossa”, la “concessione ai contadini delle terre socializzate”.

Sulle ragioni che stanno alla base delle lotte indipendentiste nella Sicilia degli anni ’40 gli storici hanno scritto migliaia di pagine, la maggior parte delle quali dettate dal preconcetto. Gli scritti diFrancesco Rendafanno eccezione, per quanto non del tutto esenti da partigianeria politica. Essi rispecchiano per lo meno un’esperienza diretta, fatta in anni in cui lo storico fu responsabile della Camera del lavoro di Agrigento e quindi conobbe dall’interno le dinamiche delle lotte contadine. A detta diRenda, la coincidenza tra lotta contadina e indipendentista va inquadrata nella crisi dello Stato unitario, aggravata dalla guerra e dallo sbarco alleato. In quella particolare congiuntura, scrive:

Larghe masse di siciliani sentono il bisogno di una diversa organizzazione della società isolana, e di una diversa sua dislocazione nel contesto della società nazionale.

Di queste “larghe masse di siciliani” facevano parte da tempo anche numerosi araldi della rendita fondiaria. E’ risaputo che le politiche agrarie del fascismo avevano scontentato i grossi latifondistiche facevano di tutto per sottrarsi alle politiche del governo nazionale. Il latifondo in Sicilia era la porzione più consistente delle terre coltivabili, ben oltre la metà di queste terre avevano una superficie superiore ai 200 ettari, a fronte di circa il 30% della media nazionale. Il fascismo aveva puntato prevalentemente alle bonifiche e dai rapporti di colonìa: la terra veniva lasciata ai proprietari, magari con l’obbligo di introdurvi miglioramenti e così sviluppare l’appoderamento. In quelle condizioni, i latifondisti siciliani capirono d’aver perso la libertà di scegliere come gestire le terre che possedevano. La spinta all’indipendenza fu sentita dai latifondisti fin dall’era fascista, salvo a spegnersi negli anni della compiacenza democristiana.

Ben diversa era la condizione dei contadini poveri e dei braccianti. Con la guerra, la loro condizione peggiorò ulteriormente, anche a causa dello svuotamento delle campagne provocato dalla chiamata alle armi; molte case e piccoli appezzamenti vennero abbandonati. Finita la guerra, crebbe enormemente la richiesta di campi da coltivare da parte dei contadini reduci. Tra braccianti nullatenenti e contadini affamati di terra, da un lato, e latifondisti, dall’altro, si apre in un primo tempo un’alleanza che non tardò a trasformarsi in ostilità aperta. Le contraddizioni tra latifondisti, contadini e braccianti, che si rappresentavano anche all’interno del ceto politico indipendentista, sono state il cuore della guerra di classe combattuta in Sicilia in quegli anni.

Una costante nei racconti storici ufficiali del quinquennio indipendentista (1943-48) è rappresentata dalla deformazione sistematica delle rivolte contadine e cittadine. Gli aspetti militari o politici, quelli di strategia nazionale o internazionale sono maggiormente presi in considerazione, riducendo così le ragioni sociali all’economicismo, le ragioni ideologiche al primitivismo culturale, le scelte armate al crimine mafioso…e via denigrando.

Per restituire verità a quel momento storico, tutti gli aspetti delle lotte contadine e popolari vanno posti al centro della ricostruzione. Si trattò di uno scontro di classe di vasta portata: si lottava contro l’ammasso e il mercato nero degli alimentari; contro il carovita, “per il pane”; per la socializzazione delle terre e la costruzione di una Repubblica siciliana socialista. Ne sono prova le autoproclamate repubbliche di San Cono, Piana degli Albanesi, Comiso e Palazzo Adriano. Non stupisce se la lotta poté estendersi alle città, ai centri minerari e industriali. Qui, all’assenza di lavoro si aggiungeva la pesantissima crisi alimentare. In tale incontro di ragioni e interessi sociali prese vita il dissidio con lo Stato “affamatore”, “usurpatore”, “massacratore”, “colonizzatore”. Fortemente coinvolti in queste lotte furono gli zolfatari di Caltanissetta, di Riesi e di Castelterni, gli operai delle città, tra i quali spiccavano i metalmeccanici del Cantiere navale di Palermo, gli edili e molti intellettuali.

Le lotte delle masse contadine e operaie, tuttavia, non sono state capaci di riprodursi su un gruppo dirigente solido. Al momento della fondazione, nel MIS confluivano sia le idee socialiste di Varvaro e Canepa, sia quelle ispirate alla rendita coltivate dai vari Carcaci, Lanza, Tasca-Bordonaro. Gli indipendentisti socialisti amavano leggere La Sicilia ai siciliani di Antonio Canepa, i “signori della terra” preferivano l’Elogio del latifondo di Lucio Tasca. Tra le due linee Finocchiaro Aprile cercava punti di mediazione, un po’ dichiarandosi vicino ai comunisti, un po’ cedendo alle pressioni dei loro oppositori.

E’ innegabile che al suo nascere la lotta per l’indipendenza presentò molti caratteri positivi, come: la ricca composizione di classe, nata dalla confluenza di piccoli contadini, braccianti, zolfatari, edili e proletariato urbano disoccupato; il radicamento di massa; il forte spirito combattivo; e perfino la permeabilità col banditismo sociale, di cui c’è traccia nella storia di Giuseppe Dottore. Questi caratteri, tuttavia, sono andati indebolendosi nel tempo; complici non secondarie, le manovre repressive e le politiche “nazionali”. Tuttavia, ciò che più contribuì ad indebolire l’indipendentismo siciliano del dopoguerra va ricercato nella cedevolezza opportunistica del ceto politico dominante. Opportunismo e cedevolezza che raggiunsero l’apice con la rottura interna consumata al 3° congresso del MIS, quando Finocchiaro Aprile cacciò Varvaro e tutta la componente comunista dal movimento. Con quel gesto, il segretario del MIS si mostrò subalterno alle pressioni dei baroni, Lanza e Carcaci in prima fila. Dopo quest’episodio Varvaro e Crisafulli fondarono il Movimento Indipendentista Democratico Siciliano, ma il loro seguito era andato esaurendosi. Ai siciliani era stato regalato uno Statuto, un insieme di norme costituzionali scritte solo sulla carta che, dietro la maschera dell’Autonomia, hanno perpetuato la condizione di subalternità del territorio a volontà ad esso esterne e indifferenti. Di lì a poco il MIS avrebbe subitola sua più pesante sconfitta elettorale. Il fallimento politico, i ricatti del finto autonomismo e l’indebolimento militare, furono fatali per il prosieguo delle lotte indipendentiste. Da quel momento, ebbero  la meglio i tentativi di deteriorare l’immagine dell’indipendentista, accusato ora di delitti mai commessi (vedi le false accuse sulle Stragi di Murazzo Torto e di Portella), ora degli errori commessi da un ceto politico opportunista e pronto svendere la prospettiva indipendentista, ora di arretratezza culturale e politica. Ciononostante come è dimostrato da episodi anche recenti di rivolte popolari in Sicilia, né i fallimenti politici del dopoguerra né il deturpamento dell’indipendentismo sono riusciti a cancellare le aspirazioni all’indipendenza e all’autogoverno territoriale.

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