L’università italiana a due velocità, intervista a Gianfranco Viesti
Intervista a Gianfranco Viesti, docente presso l’Università di Bari e autore del libro Università in declino.
L’Italia è uno dei paesi dell’UE che spende meno nella pubblica istruzione universitaria. In particolare, dal 2008 il sistema universitario è stato sottoposto a un processo di modifica strutturale: definanziamento accompagnato da un incremento della tassazione. Tutto iniziò quando al ministero c’era Tremonti e proseguì con la cosiddetta riforma Gelmini – molto contestata da studenti e accademici. Anche a seguito del governo Berlusconi, questo processo trasformativo non si è fermato. Oggi però il tema sembra passare sottobanco. Lei lo ha definito una “rivoluzione sotterranea”. Cosa intende? In cosa consiste? Chi sono gli artefici?
Di questo processo mi sono occupato costantemente negli ultimi 5 anni. Abbiamo realizzato una ricerca piuttosto ampia proprio con una fondazione di Palermo, la Fondazione RES, che è stata pubblicata nel 2016 da Donzelli con il titolo Università in declino. Ho poi pubblicato un saggio più aggiornato e sintetico da Laterza nel 2018 con il titolo La laurea negata.
Il processo è iniziato nel 2008, quindi prima della crisi economica, con un taglio molto forte del finanziamento dell’intero sistema universitario da parte dell’allora Ministro Tremonti. Poi è accelerato sia con la legge Gelmini del 2010, sia con una serie di manovre finanziarie che ci sono state negli anni, dal 2012 al 2016. Chi lo ha voluto? Beh, è molto interessante. Sebbene le prime iniziative siano ascrivibili a un governo di centrodestra, la politica universitaria è stata sostanzialmente identica per tutti i governi che si sono susseguiti – quanto meno fino al governo Gentiloni, che ha dato qualche segno in direzione diversa. Ed è stata [la politica universitaria, ndr] accompagnata da un’iniziativa piuttosto forte di ambienti politico-culturali prevalentemente del Nord e prevalentemente milanesi, volta a ristrutturare fortemente il sistema universitario italiano. Soprattutto, a concentrare le risorse disponibili su quelle che essi stessi auto-definivano «la parte di maggiore qualità del sistema universitario», le «università di eccellenza», in modo da poterle mettere in grado di competere con le altre università europee. Tra i diversi governi che si sono succeduti mi pare di poter dire che il governo Renzi sia stato quello che ha maggiormente aderito a questa impostazione, portando avanti una grande politica finanziaria dell’università che, assai più delle norme giuridiche della legge Gelmini, ha contribuito a cambiare gli assetti in Italia. Innanzitutto, si è proceduto a una forte riduzione del finanziamento complessivo, che è sceso in termini reali di circa 1/5 negli anni con i tagli più intensi. Ai danni, peraltro, di un sistema che era già nettamente più piccolo rispetto alla media degli altri paesi europei. In termini di spesa per abitante, l’Italia spende circa 1/3 rispetto alla Germania. Questa riduzione del finanziamento pubblico ha provocato un incremento delle entrate delle università da altre fonti, principalmente dalle famiglie. Ha quindi comportato un forte innalzamento della tassazione studentesca, contrariamente alle norme di legge che formalmente esistevano ancora e che avevano un tetto non superabile per il totale che le università potevano incassare dai loro studenti. Questo forte incremento della tassazione studentesca ha, negli anni della crisi economica, naturalmente contribuito ad accrescere le disparità sociali nell’accesso alle università e ad accrescere le disparità territoriali, dato che il reddito medio delle famiglie degli studenti è molto diverso sui diversi territori e quindi la possibilità delle famiglie – a parità di aliquota – di versare le tasse all’università è molto differente. Quanto al finanziamento pubblico, è stato deciso di modificare i criteri di riparto del fondo nazionale tra le università in una maniera estremamente articolata e complessa – nei libri sopracitati lo documento dettagliatamente. Sostanzialmente si è creato un sistema nel quale circa i 2/3 del finanziamento viene allocato sulla base degli studenti iscritti, mentre circa 1/3 – la cosiddetta quota premiale – viene allocato sulla base di indicatori vari, che sono cambiati molto nel tempo, tutti estremamente discutibili e collegati al processo – che è partito parallelamente – di valutazione della qualità della ricerca, anch’esso molto discusso e discutibile. Infine, fra le norme principali si è provveduto a ridurre notevolmente per molti anni la possibilità di reclutamento delle università, che viene misurata attraverso il cosiddetto tasso di turnover, cioè il rapporto tra i nuovi reclutamenti e il personale andato in pensione. Questo tasso di turnover è stato reso differente tra le diverse università ed è stato collegato anche a quanto le università incassano dalle rette degli studenti, chiudendo un cerchio: il tasso di turnover è molto più alto per le università collocate nelle aree dove le famiglie sono mediamente più ricche. Tutti i dati per i principali 15 atenei italiani (quindi inclusi Palermo e Catania) sono disponibili in un articolo che ho scritto l’anno scorso per una rivista che si chiama «Sinapsi».
Che cosa ha provocato questo? Innanzitutto, una forte contrazione del personale universitario, e quindi un aumento del rapporto docenti e studenti (che in Italia è più alto che altrove), e una chiusura degli accessi alle università per molti anni. Ciò ha incentivato in maniera netta l’emigrazione dei ricercatori italiani, molto cresciuta soprattutto tra il 2011 e il 2018, e la circostanza per la quale chi non è emigrato si è trovato collocato in posizioni precarie, con contratti variamenti formulati dalle università; precarietà discriminante in quanto molto più sopportabile da chi ha un reddito della famiglia di origine in grado di consentire di lavorare in università senza essere pagato o essendo sottopagato. L’effetto di queste norme è stato nettissimo da un punto di vista territoriale. Più che sostenere le università dell’area forte, le si è difese, perché complessivamente non hanno ricevuto molte risorse in più – avendo ottenuto una quota maggiore di un fondo che complessivamente si è ridotto. Però si è mantenuto il finanziamento al sistema dell’Italia forte, che comprende le università di Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e di Torino. Si è ridotto notevolmente il finanziamento e la dimensione [in termini di studenti, ndr] delle università del resto dell’Italia continentale: delle università che io chiamo del Nord periferico (Genova, il Friuli…), delle università di tutta l’Italia centrale (Roma particolarmente) e meridionale continentale. Infine, si è ridotta in maniera molto più netta la dimensione del sistema universitario delle isole. Per cui l’Università di Messina, che ha molti secoli di vita alle spalle, nel giro di pochi anni ha visto la sua dimensione in termini di studenti, docenti e risorse disponibili ridursi di circa 1/3. Queste disposizioni hanno anche ulteriormente favorito la migrazione degli studenti, che è cresciuta in particolare dal Sud verso quella parte del Nord di cui parlavo in precedenza, mentre si è un po’ ridotta (non a caso) la migrazione dal Sud verso le università del Centro (quindi Firenze, Roma, Pisa, Siena). Emigrazione che ha una pluralità di cause e che meriterebbe una politica che fornisse agli studenti maggiori possibilità di scelta su dove studiare e che invece [con rif. alla politica implementata, ndr] ha ulteriormente favorito lo spostamento degli studenti. Concludendo, tutto questo ha provocato un circolo vizioso molto difficile da arrestare perché tutte queste disposizioni si influenzano a vicenda e si rafforzano le une con le altre. In Sicilia gli studenti si iscrivono meno nelle università siciliane; in questo modo esse incassano meno del Fondo Ordinario di Finanziamento; incassando meno possono reclutare meno studenti; riducono così i costi; ma più i costi si riducono, più diminuiscono gli studenti e così via.
Negli ultimi 3 anni la situazione è un po’ mutata. L’indirizzo del governo Gentiloni, Conte 1 e Conte 2, è stato un po’ diverso. Le politiche sono un po’ cambiate. La più positiva è l’introduzione della cosiddetta no tax area (cioè l’esenzione totale dal pagamento della tassazione universitaria per gli studenti provenienti dalle famiglie con un ISEE basso). Quest’anno sono anche state introdotte misure cospicue di finanziamento di nuovi ricercatori di tipo B, cioè quelli che poi di norma entrano a tempo indeterminato nelle università. Queste misure sono apprezzabili, ma si rivelano insufficienti a mutare le cose. Possono rallentare ma non invertire i fenomeni di cui abbiamo parlato prima. Prova ne è il fatto che, anche quando nel 2018/19 il turnover totale dell’università italiana è stato portato a 100 (per 100 che vanno in pensione ci possono essere 100 assunzioni), i dati sulle singole università sono rimasti sensibilmente diversi e, in particolare, le università siciliane hanno mostrato i tassi di ricambio del personale più alti di tutta Italia.
Ci pare di capire che gli Atenei siciliani risultano i più martoriati da questa nuova visione. Se una sostanziale inversione di rotta non avviene, quale futuro li attende?
Molto difficile rispondere. Ci sono diverse circostanze che penalizzano la Sicilia. Almeno due. La prima è che l’isola dispone, insieme alla Sardegna, del peggior sistema di trasporto pubblico italiano. Questo complica le cose per gli studenti pendolari e ne facilita l’immatricolazione in atenei molto lontani. La percentuale di studenti che si iscrivono in atenei del Centro-Nord è circa il 6% per quelli che abitano intorno a Napoli, ma di circa il 60% per quelli che abitano intorno a Trapani. In secondo luogo, le politiche della Regione Siciliana per il finanziamento al diritto allo studio sono state le peggiori d’Italia. Per tantissimi anni il contributo che la Regione ha stanziato per il finanziamento delle borse di studio è stato del tutto insufficiente: moltissimi studenti sono risultati idonei, ma non assegnatari. Naturalmente anche questo spinge all’emigrazione, perché gli studenti che poi si spostano e si iscrivono in altre università italiane ricevono regolarmente le borse di studio.
Proprio giorno fa sono uscite le graduatorie per l’assegnazione dei Benefici 2020/2021 dell’Ente Regionale per il Diritto allo Studio siciliano. A Palermo solo il 41% degli idonei è risultato assegnatario, a Catania il 52%. Tutto ciò a fronte di un aumento del FIS. Come è possibile che ciò avvenga?
È colpa della Regione, non c’è dubbio. Persino la Calabria fa molto meglio. La Sicilia è l’ultima regione rimasta in una situazione del genere. Per quanto abbiamo studiato noi, cioè gli ultimi 15 anni, è certamente la Regione che ha fatto le peggiori politiche per il diritto allo studio di tutta Italia. Le colpe sono naturalmente nelle politiche nazionali, ma (in questo caso) anche in quelle regionali. Certo, potrebbero essere modificati i criteri di allocazione del fondo, che attualmente sono un po’ troppo legati a quanto ci mettono [in termini di fondi, ndr] le Regioni, che hanno diverse capacità. Su questo non c’è dubbio. Tuttavia, rispetto agli ultimi dati che ho visto, la Regione Siciliana è quella che fa meno sotto questo punto di vista.
Quando, a settembre 2020, la Regione Siciliana ha annunciato di voler stanziare 1200 euro di incentivi per ogni studente che decida di tornare a studiare in Sicilia da un altro ateneo, il Presidente della Crui Ferruccio Resta (rettore del Politecnico di Milano) non ha esitato a parlare di “concorrenza sleale”. Il tema dell’università-azienda è ormai sdoganato? Come cambia il concetto di formazione in questa nuova dinamica?
Sulla concorrenza sleale ci sarebbero tante cose da dire. Certamente questi incentivi al rientro (che sono stati fatti anche in Puglia, tra l’altro) mi lasciano molto freddo. Non capisco perché concentrare le risorse su questo e non pensare a dare i servizi, le borse, le mense, gli studentati… fare politiche strutturali per le immatricolazioni. Se fossi stato io l’Assessore avrei preso quei soldi e li avrei messi in servizi per studenti che frequentano. Questo è distorto anche per il tema, perché dato che il sistema finanzia le università in base al numero di studenti, quando tu fai una politica per invitare gli studenti a non iscriversi più dove stanno frequentando, ma ad iscriversi da un’altra parte fai una misura che in un certo qual modo va contro gli interessi delle università dove questi studiano. E questo non mi piace. Ha influenzato certamente gli atteggiamenti dei docenti e delle autorità accademiche.
Che le università abbiano un certo grado di autonomia è un bene, e da che esistono le università, queste sono sempre state in concorrenza tra loro dal punto di vista scientifico. Chiunque pubblichi un proprio lavoro compete, in maniera molto positiva, nel proporre idee. Questo tipo di concorrenza non lo chiamerei neanche concorrenza, perché molto è basato su alti gradi di cooperazione tra studiosi di aree diverse e comunque accresce la disponibilità totale di conoscenze del sistema. Al contrario, un elemento molto importante dell’impostazione della politica italiana fin dal 2008-2010 è stato proprio quello di simulare una vera e propria concorrenza di tipo economico tra le università – in questo ispirandosi al sistema inglese e andando contro i sistemi dell’Europa continentale. Questa concorrenza è a mio avviso molto sbagliata politicamente, nel senso che è nell’interesse del paese avere un sistema che collabori piuttosto che un sistema che competa in maniera così forte. Bisognerebbe dire al Presidente della CRUI che è 10 anni che vediamo pubblicità su tutti i giornali del Sud di atenei del Nord che invitano gli studenti a immatricolarsi lì. Si tratta poi di una concorrenza di quelle che piacciono molto ai liberisti nostrani, cioè di una concorrenza fra soggetti che hanno una capacità e un potere totalmente diverso. Non è una concorrenza fra pari. E poi è una concorrenza nella quale c’è un regista oscuro centrale che stabilisce le regole. Le modalità di regolazione del sistema universitario italiano, a mio personale giudizio, sono le peggiori possibili per come si sono determinate tra il 2008 e il 2018, perché introducono una falsa simulazione di mercato all’interno del sistema pubblico. Che è sbagliata sia perché un sistema pubblico non deve somigliare a un sistema di mercato, sia perché è una concorrenza falsata. Il cerchio si chiude quando si nota che tutte le persone che hanno scritto, che hanno parlato pubblicamente a favore di questo sistema, sono quelle che ne hanno tratto maggiore giovamento perché sono le loro sedi di appartenenza quelle che hanno tratto maggior beneficio da tutto quello che è successo. Come dire, il solito liberismo all’amatriciana italiano: molto ideologico ma attentissimo anche ai propri interessi.
Questi mutamenti hanno avuto ripercussioni sull’offerta formativa rivolta agli studenti e sulla qualità degli insegnamenti?
Sì, hanno avuto degli effetti. Gli indicatori in sé non devono spaventare perché più un sistema viene analizzato, costruendo dei dati ad accesso pubblico e degli indicatori che ci consentono di capirli, meglio è. Il problema italiano degli ultimi 10 anni è stato che molti di questi indicatori sono stati costruiti pro domo sua. Faccio soltanto un esempio: uno degli indicatori premiali era la quantità di studenti Erasmus che dall’estero andavano in una certa sede. Questo indicatore mette in competizione Firenze con Potenza. Con tutta la simpatia per Potenza, se io fossi uno studente straniero andrei a fare l’Erasmus a Firenze. Questo poi è diventato molto critico in un campo particolare, che è quello della valutazione dei docenti e cioè nelle modalità di costruzione della valutazione della qualità della ricerca e, soprattutto, nell’utilizzo a tappeto della valutazione della qualità della ricerca anche per gli individui, cosa che è vietata dalla legge. Su questo esiste una letteratura sterminata; www.roars.it da anni conduce una benemerita attività di informazione molto precisa e di analisi di questi meccanismi discutibili. C’è un altro campo che apre ulteriori riflessioni, su cui io non ho fatto direttamente ricerca: l’impatto che questi indicatori hanno sul tipo di ricerca che si fa e dunque sulla costruzione dei percorsi di ricerca e di carriera. Ci sono tantissime analisi che convergono nel mettere in guardia contro i pericoli che questo sistema ha già prodotto, sul modo di fare ricerca e sui temi trattati, soprattutto dei ricercatori più giovani (ahimé, più giovani si intende fino ai 45 anni, perché i tempi di carriera sono tremendamente allungati). Questo è un altro terreno di riflessione estremamente interessante.
La crisi sanitaria in corso – il lockdown soprattutto – ha segnato il rientro degli studenti meridionali nelle loro residenze. Il numero degli iscritti negli atenei del Sud è incrementato notevolmente. Considerando gli investimenti nella digitalizzazione che sembrano prospettarsi, come contribuirà quest’esperienza a ridisegnare i flussi migratori e le gerarchie territoriali?
Dobbiamo aspettare i dati. Così ha detto anche il Ministro Manfredi in un dibattito che abbiamo svolto recentemente. Non era ovvio quello che sarebbe successo e devo dire che, nell’insieme, il fatto che le immatricolazioni siano aumentate è un bene. Nel periodo 2012-2014, quando c’è stata la grande crisi, le immatricolazioni si erano fortemente ridotte. Questo [aumento di iscrizioni, ndr] è fortemente legato alla no tax area.
Il modo in cui è strutturato il sistema universitario italiano contribuisce a implementare le disuguaglianze territoriali, sociali ed economiche esistenti in Italia sotto tanti altri aspetti. Per la ripartenza del Meridione bisogna dunque puntare sulla rinascita dei suoi atenei?
Questo è molto importante perché un indebolimento così forte [del sistema universitario, ndr] (ripeto, parliamo della riduzione di circa 1/3 della dimensione dell’Università di Messina in 10 anni) ha degli impatti molto forti [sull’economia del territorio, ndr]. Innanzitutto sulle città, perché le università hanno anche un effetto economico molto grande in termini di loro dipendenti, di economia che generano intorno al numero di studenti, di vivacità culturale e ricreativa. Quindi l’impatto su Palermo, Catania e Messina è terribile. Le università hanno un ruolo molto importante, diretto e forte nel contribuire allo sviluppo economico di lungo periodo delle regioni in cui sono insediate. Non è la stessa cosa se i siciliani si laureano fuori o in Sicilia. Una riduzione della dimensione delle università ha effetti anche sull’impatto di tipo culturale – ma anche strettamente economico – dell’università sul territorio circostante. Proprio in Sicilia c’era stata in passato una vicenda estremamente positiva ed esemplare di collaborazione dell’Università di Catania in quella che all’epoca veniva chiamata l’Etna Valley – cioè nello sviluppo di imprese collegate alla microelettronica e ai semiconduttori e anche in relazione alla presenza della STMicroelectronics. Questa riduzione strutturale [del sistema universitario, ndr] indebolisce l’intero sistema economico e direi anche culturale di un territorio. È un processo che andrebbe invertito con molta più decisione nei prossimi anni, perché da tanti punti di vista particolarmente negativo. Personalmente ritengo che si potrebbero fare tante cose per potenziare il sistema universitario dell’Italia Cetromeridionale e in particolare della Sicilia. Tra queste, si potrebbe iniziare una politica di reclutamento degli studenti dall’area Mediterranea a Palermo. Questa mossa potrebbe essere di notevole impatto politico. È una mossa molto importante nel lungo periodo perché crea legami che durano nel tempo tra i luoghi in cui le persone studiano e quelli di origine. Consentirebbe alle università di crescere. Tuttavia, questo tipo di strategie non possono essere lasciate sulle spalle delle singole università, che non sono assolutamente in grado di coprire gli investimenti cospicui che sono necessari a creare questo sistema. Dovrebbe essere uno dei progetti del Recovery Plan: creare due gradi sedi universitarie nel Mezzogiorno – Palermo per il Mediterraneo e Bari per i balcanici – dedicate a offrire corsi universitari in inglese o anche in parte in italiano per gli studenti provenienti da quelle aree. Se fossi io il Ministro competente sicuramente inserirei questo progetto nel piano di rilancio. Poi si possono fare tante altre cose collegate sia al sistema universitario nel complesso sia al rapporto tra il sistema universitario e le città. L’autonomia delle sedi è un aspetto positivo. Personalmente non sono favorevole a un ipotetico ritorno della centralizzazione del sistema per cui tutte le decisioni vengono prese dal Ministero, ma l’autonomia universitaria va intesa nei suoi limiti (le università possono fare alcune cose, non altre) e va naturalmente compreso come le possibilità delle università sono profondamente condizionate dal territorio in cui sono insediate. Si parla moltissimo delle relazioni tra università e imprese, che per molti versi sono positive. Evidentemente la dimensione e l’intensità di queste relazioni è ben diversa se uno sta a Bologna o a Palermo.
Sono una studentessa siciliana che si ritrova a dover scegliere se partire o restare. Restare in Sicilia significa non avere la possibilità di accedere a una borsa di studio, avere a che fare con infrastrutture universitarie fatiscenti, sapere che la laurea sul mio curriculum per molti varrà meno di quella conseguita in un ateneo settentrionale o estero. Lei, da docente più che da economista, cosa mi consiglia di fare?
Mah, il problema è del sistema, non dell’individuo. Lo studente fa quello che meglio crede. Ci sono molti (io stesso) che ritengono che nella vita delle persone un periodo di studio fuori dalla propria città sia un elemento molto positivo. Il consiglio agli studenti è di fare quello che credono meglio, dove credono meglio, come credono meglio. Il problema è di sistema, sono gli incentivi e disincentivi allo spostamento. Il dato che deve far riflettere non è tanto la percentuale di studenti del Sud che si iscrivono in università del Nord; è che nessuno del Nord si iscrive in poli del Sud. E credo che nessuno, neanche gli avversari in questa discussione, possa avere la faccia tosta di sostenere il contrario. Questo è il grande tema. Che le persone circolino per me è sempre stato un valore. Se un ragazzo vuole andare a studiare a Bologna, che vada. Naturalmente, se questa è una libera scelta. Può dipendere anche dalla mancanza di alcuni corsi, dall’impossibilità di pendolare, dal fatto che non ci siano posti letto per gli studenti e dunque da fattori strutturali su cui bisogna intervenire. Se la scelta è invece libera – e cioè basata su possibilità diverse tra cui si sceglie – non vedo alcun problema. Il problema sono le condizioni strutturali.
L’aspetto rilevante è che questa scelta è molto condizionata dall’estrazione sociale. Gli studenti che emigrano vengono da famiglie economicamente più forti delle famiglie che rimangono. È anche una condizione di genere, perché mentre si iscrivono più donne che uomini, gli studenti che emigrano sono più uomini che donne. [Quella del valore minore di una laurea al meridione, ndr] è una parte della narrativa sviluppatasi negli ultimi 10 anni, molto importante e collegata a questi ranking di università che sono tutti assolutamente discutibili e che andrebbero totalmente ignorati, nessuno escluso. A ciò è collegato anche un certo modo di fare informazione, per cui si dice che se uno si laurea in una università del Nord trova più facilmente lavoro. Forse trova più facilmente lavoro al Nord. Uno studio della Banca d’Italia – politicamente scorretto e dunque un po’ sepolto – ha fatto vedere che, se si pondera il tasso di occupazione dei laureati per il tipo di laurea e per i tassi di occupazione del territorio, il contributo delle diverse università non ha nessun gradiente Nord/Sud. Anzi, mi colpiva in quello studio che l’Università di Bologna era molto in basso in classifica, come se studiare all’Università di Bologna non aggiungesse moto in termini di occupabilità perché il territorio è già molto forte. Abbiamo parlato di una ristrutturazione radicale del sistema, che questa si sia potuta compiere senza aver suscitato un’opposizione fortissima è una delle grandi cose su cui si potrebbe indagare. Certamente una delle risposte è che è stata accompagnata da una narrazione totalmente distorta, volta a sostenere in maniera scientificamente impropria, che laurearsi in alcune università è meglio che laurearsi in altre. C’è un forte connotato territoriale in tutto questo. Questa campagna di denigrazione delle università del Mezzogiorno è stata accompagnata e sostenuta da una parte della stampa, del sistema di informazione nazionale, che certamente non ha sede al Sud.