Valle del Belice: un laboratorio di pratiche di lotta e partecipazione

Valle del Belice: un laboratorio di pratiche di lotta e partecipazione
Pochi sanno – men che meno le nuove generazioni nate e cresciute a cavallo tra la fine del XX secolo e l’inizio del Nuovo Millennio – che la Sicilia Occidentale e la Valle del Belìce, territorio spesso ricordato per il sisma che lo colpì nel 1968, è stato protagonista e laboratorio di pratiche di lotta civile e di partecipazione sociale, che influenzarono non solo decisioni di respiro statale, ma fu da esempio alle avanguardie sociali di tutta Europa.

Il popolo belicino seppe mobilitarsi contro le mafie e uno Stato burocratico e lontano dalle esigenze reali di un territorio dove diritti oggi scontati, come l’istruzione e l’educazione scolastica, o servizi come la luce elettrica e l’acqua corrente, erano considerati un privilegio. Le rivendicazioni sociali si intrecciarono con la vicenda del terremoto e la ricostruzione, in una storia affascinante, poco conosciuta dagli stessi abitanti belicini e probabilmente non pienamente conclusa. Gli eventi che coinvolsero la valle trovano in questi anni interessanti riscontri e similitudini nelle problematiche e iniziative sociali globali attualmente in atto.

 

Danilo Dolci a Trappeto e la condizione della Sicilia Occidentale

Le lotte civili e territoriali e i metodi di rivendicazione sociale e culturale che si svilupparono nella Valle del Belìce a partire dagli anni precedenti al sisma del 1968 e che proseguirono nei decenni successivi, si modellarono sulle basi e le attività attuate da Danilo Dolci a partire dal suo insediamento nel borgo marinaro di Trappeto nel 1952. Lì, Dolci diede vita alla prima delle sue eclatanti proteste. Per suscitare attenzione sulle drammatiche condizioni della zona, in cui era ancora possibile morire letteralmente di fame, annunciò pubblicamente l’avvio di un digiuno svolto simbolicamente sul letto di Benedetto Barretta, un bambino di Trappeto morto di denutrizione.

A seguito di questo digiuno, che per primo valse a Dolci le attenzioni della stampa, avviò una sistematica opera di denuncia volta a portare alla luce le terribili condizioni di vita della popolazione del luogo. Per far ciò, adottò una strategia semplice quanto innovativa: la descrizione puntuale della realtà materiale e sociale, quanto più possibile priva di filtri e omissioni, e la raccolta di testimonianze dei protagonisti.

Del 1955 è una delle opere di Dolci che gli valse una considerevole attenzione mediatica, intitolata Banditi di Partinico, insieme con l’opera Inchiesta a Palermo, del 1956. La tesi del libro è chiara e allo stesso tempo dirompente nella denuncia delle problematiche del fenomeno. Nella zona del maggior banditismo siciliano (Partinico, Trappeto, Montelepre: 33.000 abitanti), dei 350 “fuorilegge”, solo uno ha entrambi i genitori che abbiano frequentato la quarta classe elementare. Ogni mese si spendono 13 milioni per polizia, forze dell’ordine, galera. Più di 150 milioni l’anno, mentre, per esempio, dalle 28 scuole di assistenza sociale ormai funzionanti in Italia, nessuno è arrivato. A 4000 persone occorre subito lavoro.

L’inefficienza, il disordine della vita pubblica persistono. In nove anni si è intervenuti spendendo più di 2 miliardi e mezzo del pubblico denaro per ammazzare e incarcerare; parallelamente non si è mosso un dito, ad esempio, per utilizzare l’acqua del fiumicello vicino, cosa che avrebbe dato facilmente lavoro a tutti. Se ci fosse stato lavoro non ci sarebbe stato banditismo. Ne viene così dipinta una realtà fatta di assenza di servizi, di infrastrutture, d’occupazione, di istruzione, delle più elementari condizioni del vivere civile. Un mondo di povertà, di assenza di speranza, di inconsapevolezza e quindi ancor più drammatica educazione alla violenza. La miseria e l’abbandono di questo mondo costituivano la vera e profonda condizione di possibilità del fenomeno del banditismo. Questo comportava anche un radicale atto d’accusa nei confronti dell’intervento dei poteri pubblici, che si dispiega unicamente attraverso lo strumento poliziesco e militare ma che si rivela incapace di aggredire le vere radici del fenomeno. La causa del banditismo, insomma, è interamente sociale ed economica e quindi, secondo Dolci, le istituzioni pubbliche ne sono pienamente responsabili.

? archivio di Belìce/EpiCentro della Memoria Viva di Gibellina, Tony Nicolini 1967

Dalla denuncia all’azione. Lo “sciopero alla rovescia”

Le inchieste contribuirono ad accrescere la popolarità di Danilo Dolci e delle sue iniziative. Sin da questi primi anni, infatti, non si limitò soltanto all’inchiesta. Alla prima attività di accoglienza di educazione di bambini abbandonati, orfani, o provenienti da famiglie incapaci di prendersene cura, si affiancano una serie di iniziative finalizzate all’educazione, alla presa di coscienza della popolazione e alla denuncia, sempre precisa e circostanziata, delle cause dello stato di cose presenti. Furono organizzate alcune attività di assistenza alla popolazione più bisognosa, iniziative per lo sviluppo dell’irrigazione, opere di documentazione e di informazione, università popolare e concerti, denuncia della pesca abusiva mediante motopescherecci che danneggia le attività dei pescatori locali.

Alla fine del 1955 fu lanciata una campagna di iniziative finalizzate a concentrare l’attenzione su queste battaglie, la cui eterogeneità trovava una sintesi attorno al tema dello “sviluppo”. Le iniziative, si conclusero nel 1956 con il cosiddetto “sciopero alla rovescia”. In questa iniziativa, invece di astenersi dal lavoro, come nella tradizionale forma di sciopero, i lavoratori prestano la loro opera in forma gratuita e non retribuita per attuare un intervento infrastrutturale necessario, ma non ancora realizzato dalle istituzioni responsabili. Qualche centinaio di disoccupati, organizzati dal Centro Studi, lavorarono alla sistemazione di una trazzera in stato di abbandono nelle campagne di Partinico. L’azione, voleva dimostrare da una parte la drammatica carenza di infrastrutture e attrezzature civili della zona, dall’altra la grande disponibilità di uomini e di lavoro che, senza essere adeguatamente inserita nel mondo del lavoro, finiva per alimentare il circolo vizioso tra miseria, sottosviluppo e violenza.

In tutta risposta, le forze dell’ordine e le istituzioni stroncarono l’iniziativa e arrestarono Dolci e alcuni suoi collaboratori. Il processo divenne un vero e proprio caso politico: in gioco, secondo Dolci e i suoi sostenitori, vi era il rispetto e l’applicazione dell’Articolo Quattro della Costituzione che garantiva il lavoro come fondamentale diritto di cittadinanza della giovane Repubblica italiana. Il processo finì clamorosamente con una condanna, nonostante la grande mobilitazione mediatica e culturale. Ma non fu la fine della risposta dello Stato.

Le inchieste del 1955 e del 1956, costarono a Danilo Dolci e Alberto Carocci una denuncia della questura di Roma per oscenità e oltraggio alla morale per i contenuti delle inchieste, che mostravano la cruda realtà delle campagne siciliane e dei quartieri meno abbienti di Palermo. Anche questo processo si concluse con una iniziale condanna, che però mobilitò le coscienze di quell’Italia che voleva conoscere se stessa, anche e soprattutto nelle sue parti oscure e certamente reali: proprio quelle parti che il fascismo aveva coperto dietro il velo della propaganda.

La sentenza venne infine cambiata in assoluzione in secondo grado, riconoscendo il lavoro scientifico e informativo che Dolci aveva fatto sui territori di Partinico e le periferie di Palermo. Grazie all’accresciuta popolarità raggiunta da Dolci e per merito della sua azione, a partire da allora si verificarono nuove entusiastiche adesioni al suo progetto da parte di giovani e meno giovani volontari e importanti sostegni finanziari dei singoli e di gruppi di tutta Europa.

Nel 1956 a questo gruppo di collaboratori si unì il giovane Lorenzo Barbera, che, come vedremo, giocherà un ruolo fondamentale nell’organizzazione delle iniziative e delle mobilitazioni nel corso degli anni Sessanta nella zona della Valle del Belìce.

 

 

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